Se Maometto non va alla montagna, la montagna frana

Se Maometto non va alla montagna, la montagna frana

di William Domenichini

A meno di un anno dal disastro alluvionale che ha travolto Toscana e Liguria, tra l’esondazione del Serchio e del Magra, frane e allagamenti, dal disastro di Giampilieri, in provincia di Messina, in cui sono morte 39 persone, cos’è cambiato? Piove ed in Toscana, a Massa, muoiono tre persone sotto una frana, in Liguria, a Genova, basta un nubifragio per mettere in ginocchio l’intera città, in Lunigiana diluvia e ritorna l’incubo di sfollamenti e strade interrotte ed in Veneto si contano oltre 2500 senza tetto e aziende che chiudono i battenti tra i macchinari distrutti dalle esondazioni. Non è cambiato nulla, anzi, il bilancio, solo nel 2010, conta 44 vittime e 237.570 milioni di euro di danni. Lo stato di cose relativo al dissesto idrogeologico, alle cause, alle sue conseguenze ed alle presunte soluzioni è riassumibile in un vero e proprio teorema e, come ogni teorema, espresso l’enunciato occorre dimostrarlo nell’ambito di una teoria formale. In questo caso la tesi è molto semplice: restando nel campo del sistema numerico decimale, quando la terra frana, o i fiumi esondano, due e due non fanno quattro.

MUTAZIONI CLIMATICHE, FRAGILITÀ DEL TERRITORIO

Partiamo dall’ipotesi numero zero: ancora il clima. Paradossalmente ci accorgiamo delle sue mutazioni solo quando si riappropria, con una violenza incontenibile, della dignità che gli abbiamo tolto, come a dimostrare che nonostante le rivoluzioni industriali, il progresso tecnologico, l’uomo rimane un elemento fragilissimo al cospetto di Gaia e non può fare ciò che meglio crede senza pagarne le conseguenze. Se il clima fosse un personaggio da romanzo direbbe che “da quando è stata inventata la macchina a vapore il mondo è sempre stato in condizioni anormali; le guerre e le rivoluzioni non sono state che le manifestazioni di questo stato”, ma oggi la rivolta che sta compiendo la natura non viene considerata nemmeno dai nostri governanti, almeno quelli che contano e dopo la delusione di Copenaghen ora tocca a Cancun. Servirebbe a qualcosa dire che ci sono dei pazzi in giro per il mondo che sostengono da anni che la questione del cambiamento climatico è un nodo cruciale per la sopravvivenza del pianeta? Forse, ma questo non cambia il dato che i tempi di ritorno di fenomeni inconsueti vengono ridotti, la calamità, la “sventura pubblica” è quotidianità e gli eventi che sconvolgono la nostra vita passano da straordinari ad ordinari.

La prima ipotesi riguarda la fragilità del territorio. L’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (IRPI), del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha prodotto un catalogo di eventi di frane e di inondazioni storiche in Italia da cui emergono dati inequivocabili: tra il 1950 al 2008 si contano almeno 6.380 vittime (morti, dispersi, feriti) per frana e 2.699 vittime di inondazioni. Si tratta di un bollettino di guerra in cui tutte le regioni italiane sono coinvolte, ma le più esposte al rischio da frana sono state il Trentino Alto Adige (675 vittime dovute a 198 eventi franosi), la Campania (431 vittime in 231 eventi), la Sicilia (374 vittime in 33 eventi), il Piemonte (252 vittime in 88 eventi), mentre il Veneto, solo nella tragedia del Vajont ha contato oltre 1.900 vittime. Le regioni più esposte al rischio da inondazione sono state il Piemonte (235 vittime in 73 eventi alluvionali), la Campania (211 vittime in 59 eventi), la Toscana (456 vittime in 51 eventi), e la Calabria (517 vittime in 37 eventi). Il ministero dell’Ambiente dichiara che 2.150.410 ettari di suolo nazionale, pari al 7,1%, ricade in aree classificate ad alto rischio idrogeologico coinvolgendo il 68,6% dei Comuni italiani.

Un quadro simile trova sostegno nel primo rapporto “Terra e Sviluppo. Decalogo della Terra 2010”, redatto dall’ordine nazionale dei geologi: circa 6 milioni di italiani abitano nei 29.500 chilometri quadrati considerati ad elevato rischio idrogeologico, dove eventi naturali possono determinare effetti nefasti per cose e persone. Il 19% di questi, ovvero oltre un milione di persone, vivono in Campania, 825 mila in Emilia Romagna e oltre 1 milione e mezzo tra Piemonte, Lombardia e Veneto. Questa gente vive in un milione e 260 mila di edifici a rischio di frane e alluvioni, di questi oltre 6 mila sono scuole, 531 gli ospedali. Solo in Liguria l’84% dei comuni ha nel proprio territorio abitazioni in aree golenali, in prossimità di alvei o in aree a rischio idrogeologico, e il 27% presenta interi quartieri. Nel 53% dei comuni liguri sono a rischio strutture e fabbricati industriali che comportano, in caso di alluvione, oltre al rischio per le vite dei lavoratori, anche il pericolo di sversamento di prodotti inquinanti nelle acque e nei terreni, nel 21% dei casi sono esposte a pericolo di frana o alluvione anche strutture sensibili o strutture ricettive turistiche. La situazione ligure pur non avvicinandosi alla drammaticità di territorio come Calabria, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta e Marche – regioni dove la totalità dei comuni è a rischio di frane ed alluvioni – è pur sempre difficile: su 235 comuni 188 (80%) sono a rischio, e delle quattro provincie liguri la più esposta è La Spezia: 32 su 32 comuni sono a rischio idrogeologico.

RISPARMIO “PIDOCCHIOSO” …

Seconda ipotesi del nostro teorema sono i soldi, chi li spende e come. Il rendiconto del costo del dissesto dal dopoguerra ad oggi ammonta a 213 miliardi di euro e solo dal 1996 al 2008 lo stato italiano ha investito per calamità circa 27 miliardi di euro, a fronte di un valore dei danni causati stimabile in circa 52 miliardi. In pratica tamponiamo le falle con toppe minuscole, spendendo mediamente circa 800 milioni all’anno, una cifra che nell’ultimo ventennio è aumentata assestandosi intorno al miliardo e 200 milioni annui. Un’inezia.

Il Ministero dell’Ambiente, attraverso i piani stralcio per l’assetto idrogeologico (PAI) dalle Autorità di Bacino, stima che per mettere in sicurezza idrogeologica l’intero territorio nazionale occorrono 40 miliardi, di questi il 68% riguarderebbe interventi relativi al centro nord, il 32% al mezzogiorno. La realtà è che, solo nel periodo 1991-2008, sono stati finanziati dallo Stato interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico per un importo di 7,3 miliardi di euro, poco più di 400 milioni all’anno. Per avere un quadro della situazione consideriamo la spesa totale del Ministero dell’Ambiente nel decennio 1999-2008: 58 miliardi e 235 milioni di euro in valori nominali (lo 0,7% della spesa complessiva) per la spesa corrente. Le spese destinate alla produzione e al funzionamento dei servizi, principalmente spese di personale ed acquisto di beni e servizi, costituiscono la parte più rilevante con 31,350 miliardi (54% della spesa totale), mentre la spesa in conto capitale è di 26,885 miliardi (46%) e di questa la parte più consistente è relativa agli investimenti: 18,4 miliardi di euro, pari al 32% della spesa totale ma appena al 2,1% degli investimenti complessivi. Per quanto attiene il territorio la parte più rilevante degli investimenti è localizzata nelle quattro regioni del Nord Est: 4,9 miliardi pari al 27% del totale nazionale, una quota in linea con la superficie territoriale (29,6%) e la popolazione (28,9%) ad elevato rischio idrogeologico. I soggetti attuatori degli interventi si distinguono tra gli enti locali (comuni, province e comunità montane) con oltre 10 miliardi di investimenti, il 56% del totale. Alle regioni, province autonome ed enti collegati, competono 4,2 miliardi (23%), allo Stato 3,6 miliardi (19%) e infine il restante 2% compete alle imprese locali (Consorzi, aziende, società e fondazioni a carattere locale).

… PER UNO SPERPERO DISSENNATO

Viste le ipotesi, tutte verificate empiricamente, la dimostrazione del teorema non avviene tanto per assurdo quanto per paradosso: si scopre che rimediare ai danni, dopo che si sono prodotti, è un vero affare. La mancanza di una pianificazione idrogeologica preventiva porta ad una gestione dell’urgenza, ad un ricorso alla perenne straordinarietà, ad un sistemico tamponare le falle di una nave che non trova nessun porto, in modo assai sospetto perché non si trovano i fondi per sistemare l’esistente, ma si annunciano continuamente spese folli per opere inutili. Sembra un leit-motiv già sentito quando si parla di rifiuti, ma tant’è che nella previsione di bilancio nella Finanziaria 2010 sono rimasti solamente 900 milioni di euro per il dissesto idrogeologico, con un ulteriore taglio di oltre il 20% rispetto all’anno precedente. Per una sorta di effetto “vaso comunicante”, il taglio di una risorsa corrisponde al finanziamento di un’altra: ecco che il governo “sblocca” 19 miliardi per un aggiornato elenco di 28 opere che vanno dalla Salerno-Reggio Calabria (ebbene sì) ai completamenti dell’alta velocità ferroviaria sulla Milano-Genova e Milano-Venezia passando per il Mose a Venezia. C’est combien? Al Nord vanno oltre 71 miliardi, al Sud poco meno di 39 miliardi ed al Centro qualcosa come 20 miliardi, totale 130,914 miliardi di euro in opere deliberate dal CIPE.

Manca ancora un passaggio e la dimostrazione sarà palese. Per mettere in sicurezza il territorio basterebbe un’opera di manutenzione pluriennale a partire dai piccoli corsi d’acqua, un piano di prevenzione in grado di coniugare la sicurezza dei cittadini e che vada a contrastare l’abusivismo e l’urbanizzazione selvaggia. Microinterventi diffusi creerebbero una miriade di cantieri e di occasioni di lavoro che potrebbero essere il vero volano di rilancio delle economie locali, invece la risposta infrastrutturale è sempre la solita: grandi opere, cioè grandi appalti per grandi gruppi industriali. Tanto per avere un termine di paragone il governo tedesco prevede che il 20% delle superfici agricole nei prossimi anni dovranno essere convertite al biologico. Non si tratta solo di una strategia di politica agraria, ma un decisione per garantire un migliore equilibrio degli ecosistemi e prevenire le inondazioni. Una strategia decisamente più economica rispetto agli interventi straordinari di manutenzione che lo Stato Federale negli ultimi anni ha dovuto affrontare. Uno studio del Julius Kühn-Instituts conferma che il potenziale di assorbimento del terreno coltivato in modo biologico è del 39% migliore rispetto ai terreni coltivati in modo convenzionale. Una performance che si spiega con un tasso di infiltrazione superiore del 83%, per via di una migliore porosità degli strati di terra. In caso di forti precipitazioni l’acqua piovana viene assorbita più rapidamente in profondità. In Italia, è bene ricordarlo, in nome dello sviluppo, della crescita del Pil e quant’altro, tra il 1995 e il 2006 abbiamo cementato 750.000 ettari di suolo.

UN’ALTERNATIVA SENSATA

La terza ipotesi è l’alternativa al pensiero unico. Secondo l’Associazione nazionale bonifiche, irrigazioni e miglioramenti fondiari, basterebbero 4,1 miliardi di euro per mettere in sicurezza l’Italia con un’adeguata pianificazione che gestisca la fase di intervento e stabilisca i piani di manutenzione, riducendo il dissesto idrogeologico e facendo risparmiare milioni di euro in commissariamenti: sistemare torrenti, rogge, canali artificiali per adeguarli ai cambiamenti climatici, al degrado e all’incoltivazione dei terreni agricoli e all’aumento della superficie cementificata, sulla quale l’acqua scorre invece di essere assorbita dal suolo. Manutenzione degli argini, creazione di casse d’espansione che funzionino da laminatoi, stabilizzazione dei pendii, adeguamento della reti fognarie urbane. A fronte di ciò 6,3 miliardi sono stati previsti per il ponte sullo stretto di Messina.

Ecco dunque dimostrato il nostro teorema: 4,1 miliardi di euro metterebbero in sicurezza un paese che vede sprofondare i patrimoni dell’umanità sotto le frane, vede morire i propri figli nel sonno, vede evacuare la gente dalle loro case e inondare fabbriche e interrompere infrastrutture dopo 24 ore di pioggia. Ma si preferisce favorire opere che ne costano un terzo in più, che consentiranno all’arancia siciliana di risparmiare venti minuti per attraversare lo stretto, rimpinguando le casse di un coacervo di imprese che sub-appalteranno, esternalizzeranno e faranno lievitare i costi a suon di riserve su capitolati, computi estimativi e progetti esecutivi. Non è un caso che per queste grandi opere non vi è traccia di analisi comparative sui costi-benefici sociali, o di semplici analisi e bilanci costi-ricavi che tarino l’onere pubblico complessivo dell’opera (previsioni di traffico, di utenze, ecc.), così come mancano sistematicamente le “previsioni di domanda” che consentirebbero ai cittadini di fare un confronto. Così si evita che qualcuno si renda conto che è meglio un piano di manutenzione, invece di un’opera costosissima sottoutilizzata.

C’è poi una conseguenza culturale, dovuta alla ripetizione continuativa di una menzogna: si prende come verità e si accetta acriticamente che la grande opera sia utile a creare sviluppo. Tanto per sprecare altri esempi, la linea alta velocità (TAV) Milano – Torino è costata 8 miliardi di euro, ha una capacità di 300 treni al giorno ma ne porta 14 (dato largamente prevedibile e da molti tecnici invano previsto e segnalat); il tutto escludendo il dramma della mancanza o soppressione di servizi per pendolari, a vantaggio di costosissime carrozze rosso fiammante. Insomma, un fallimento totale per la collettività, ma non certo per le casse delle aziende che vi hanno operato, al netto di infiltrazioni mafiose e di utilizzo di manodopera clandestina. La collettività ha perso la capacità di prevedere e di prevenire, condizionata da scelte strategiche che avvantaggiano pochi in un sistema in cui è più remunerativo ricostruire. Quindi ne consegue che, date le ipotesi, quando la terra frana, o i fiumi esondano, è verificato che due e due non fanno quattro. Q.e.d.

APPALTI ALLEGRI E COMPLICI EVASIONI

Ad un simile teorema corrispondono due corollari. Il primo riguarda il funzionamento degli appalti nelle opere civili: cui prodest?In Italia i lavori pubblici sono ostaggio di una dinamica a dir poco diabolica, partendo dalle piccole realtà: un ente pubblico bandisce un’opera e la consueta cordata di imprese se la aggiudica, o sbaragliando la concorrenza sul piano dell’offerta, o per ritiro dei concorrenti che non riescono a sostenere ribassi sostenibili solo per accaparrarsi la commessa, non per realizzarla. Inizia così un lento ed estenuante processo di contrattazione in cui il dominus imprenditoriale tiene sotto scacco l’ente pubblico a colpi di riserve. Si parte da un progetto esecutivo, da capitolati e computi metrici estimati per fermare i cantieri ogni qual volta si scopre che i prezzi assunti non sono congrui alle esigenze di profitto. Folte schiere di legali si presentano negli uffici tecnici con due alternative: o il costo dell’opera lievita a norma di legge o rimarrà una cattedrale nel deserto con l’evaporazione dei finanziamenti relativi, il tutto in uno “stop and go” infinito dei cantieri, micidiale sul piano dei costi e della funzionalità.

Il secondo corollario mette in relazione il fenomeno dell’evasione fiscale con le calamità, secondo la dinamica che ricorda il “free-rider”. Gli imprenditori veneti colpiti dall’alluvione nel Veneto chiedono a gran voce l’intervento dello Stato: sono gli stessi soggetti che quotidianamente si lagnano per l’ingerenza statale attraverso la pressione fiscale. Quante volte si ascoltano litanie riguardanti il pagamento delle tasse e la mancanza di servizi, poi si ingenera un fenomeno per cui il singolo non contribuisce al collettivo per trarne un proprio vantaggio, si chiama evasione fiscale, e quando mancano i fondi è tardi. La manutenzione ambientale costa, ci vogliono le entrate erariali per pagarla e, senza scomodare tesi sulla redistribuzione del reddito, è evidente che l’equilibrio non esisterà fino a quando ogni soggetto coinvolto non sia incentivato a contribuire, in misura minore o più equamente possibile, al fine di ottenere maggior beneficio complessivo. In questo senso giocherebbe un fattore determinante l’opinione pubblica: pretendere interventi di prevenzione significa fare un ottimo investimento per la qualità della vita o, più semplicemente, risparmiare in interventi di emergenza decisamente più costosi.

Parafrasando Marco Boschini, non occorre solo un ministro delle Piccole Opere ma anche tanti, anzi tantissimi, assessori alla Manutenzione, che si alzano presto la mattina e vanno in bicicletta nel loro ufficio, una sala comune dove organizzano e coordinano giorno per giorno, insieme ai collaboratori, i tanti cantieri diffusi che vengono controllati spostandosi possibilmente con mezzi pubblici. Il loro primo compito è osservare, il secondo ascoltare, il terzo condividere: un lavoro meticoloso, che richiede tempo e silenzio, lontano da luci della ribalta mediatiche e vicino ai cittadini, ai comitati, non alle telecamere. Questi assessori non inaugurano ma aggiustano, non dichiarano ma verificano, non annunciano ma concludono, non collaudano ma ripristinano. Invece ci ritroviamo che “il ministro – o gli assessori – dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia, con la tovaglia sulle mani e le mani sui…

Tutto questo senza mettere il naso fuori dalla finestra, senza tener conto degli effetti delle mutazioni climatiche in paesi come Pakistan, Messico, Tibet, India, piuttosto che in Thailandia o in Cina, dove un’alluvione eleva il bollettino dei morti di qualche ordine di grandezza rispetto alle civiltà industriali, perché anche lì la drammaticità delle condizioni (dis)umane ci ricorda ancora più drammaticamente che oggi se Maometto non va alla montagna, è la montagna che frana.

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William Domenichini

William Domenichini

Nato alla Spezia nel 1978, è dipendente di azienda. Coordinatore della redazione di InformAzione Sostenibile, da anni coltiva la passione per la scrittura,, contribuendo anche ad altre appzine come L’Indro, Manifesti(amo) e DemocraziaKm0. Coautore del libro/dossier sugli abbandoni delle aree militari “Riconversioni urbane” (!Rebeldia Edizioni), ha pubblicato nel 2018 il romanzo partigiano "Fulmine è oltre il ponte" (Ed. Marotta&Cafiero)..

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