Chiare, fresche, dolci acque

Chiare, fresche, dolci acque

di William Domenichini

Noi italiani, popolo di poeti, probabilmente lo eravamo di santi, sommessamente stiamo facendo scappare pensatori e scienziati, ormai nessuno fa il navigatore se non ha un tonton e in quanto a trasmigratori, lo si lascia fare ad altri, mentre la maggioranza silenziosa veste verdi casacche di respingitori. Che ci rimane? Qualcuno potrebbe dire l’aria pulita o le chiare, fresche, dolci acque. Quanto all’aria pulita c’è poco da essere ottimisti: c’è chi vorrebbe un inceneritore a quartiere, che chi nonostante il traffico soffocante non rinuncia alla sua auto e chi quando parla di mobilità sostenibile metterebbe mano alla fondina, c’è chi i ciclisti li respingerebbe come i migranti e chi, per non scomodarsi troppo, importerebbe aria fresca dall’Islanda, inscatolata.

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Ma d’altronde di che meravigliarsi? Non è forse vero che siamo il paese maggior consumatore di acqua in bottiglia? Beviamo circa 194 litri a testa all’anno (2007) ovvero un fiume di bottiglie da quasi 12 miliardi di litri. Tanto per usare un paragone, negli Emirati Arabi se ne consumano 164 litri procapite annui, all’incirca un torrentello da 800mila litri all’anno. Eppure viviamo in un paese in cui non mancano certo fonti d’acqua, controllate, monitorate e garantite.

Lo schema è semplice: mettiamo insieme alcune imprese che producono lo stesso prodotto, senza cooperare o colludere negli affari, con elevato potere di mercato, grazie alla massificazione del loro profitto ed operando in un mercato assai remunerativo (al consumatore un litro di acqua in bottiglia costa circa quanto 1000 litri di acqua del rubinetto) e drogato dalla pubblicità, che rende il prodotto un “bisogno indotto” conferendogli proprietà miracolose: dal plinplin al protprot, dalla giovinezza eterna all’elisir d’amore. Mettiamo ad invogliare all’acquisto una miss conturbante o un vincente campione di scala 40, ed ecco spiegato come sia possibile che nel giro di 5 anni il consumo d’acqua in bottiglia raddoppi, per un giro d’affari di oltre 2 miliardi di euro all’anno.

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Eppure l’Earth Policy Institute sostiene che è pressoché impossibile far capire al consumatore che circa il 40% dell’acqua imbottigliata ha la stessa provenienza dell’acqua del rubinetto, alla quale vengono aggiunti successivamente minerali che non hanno alcun effetto benefico sulla salute. Non solo: fermo restando che per “produrre” una bottiglia d’acqua occorre consumare un discreto quantitativo di energia (dal petrolio per la plastica all’elettricità degli impianti), occorre imballarla, occorre trasportarla (su gomma ovviamente, per non farci mancare nulla) e naturalmente occorre “rifiutare” gli imballaggi, i contenitori, ecc. Insomma preferiamo mediamente un sistema che ci costa di più, che aumenta l’entropia sistemica in modo impressionante ad un semplice gesto: aprire il rubinetto. Paradossalmente non si è disposti a pagare a costo equo l’acqua potabile, accettando una tariffazione efficiente del servizio idrico integrato che garantisca anche la riduzione degli sprechi, preferendo comprare acqua in bottiglia ad un costo di gran lunga più alto rispetto a quella del rubinetto di casa. Qualcuno cantava che “è difficile resistere al mercato“.

800px-mineralna_hiszpanskaBasterebbe questo disarmante quadro per darsela a gambe ed invece non c’è limite al fondo, perché in Italia è iniziato l’ultimo assalto alla diligenza. Altro che chiare, fresche e dolci acque: a suon di decreti il governo italiano sta completando la privatizzazione delle aziende di servizi pubblici locali con rilevanza economica come luce, acqua, gas, trasporti e di raccolta rifiuti con relativi impianti. In nome di “privato è bene, statale è male”, in funzione di quel cortocircuito mediatico, in cui pesa più l’aumento delle tasse (o meglio delle tariffe) piuttosto che il costosissimo e maniacale accaparrarsi confezioni di oligominerale a vita bassa, proprio quando la crisi economica smaschera il gioco delle tre carte della finanza nell’economia, si impone che i privati, le multinazionali, entrino obbligatoriamente nella gestione del ciclo idrico, stabilendo investimenti, tariffazioni e quant’altro. Un succulento piatto di circa 900 società, condite da 40 miliardi di fatturato, euro più, euro meno, pronte ad essere fagocitate nel floating del mercato, nel ventre molle delle sale di scambio con una sola certezza: il consumatore/utente multiutilities, o meglio quel che resta del cittadino municipalizzato, si ritroverà con le bollette in una mano ed il portafogli nell’altro, mentre sulla testa si trova schiere di consigli d’amministrazione pronti a colonizzare territori in nome del più classico dei monopoli: l’acqua. Eppure qualcuno cantava che “il liberismo ha i giorni contati“.

marxCi sono alcune questioni in sospeso che evidenziano la disumanità di ciò che sta accadendo. La prima riguarda la sostenibilità sociale di un operazione che mette beni fondamentali come l’acqua, e i servizi primari come l’energia o lo smaltimento dei rifiuti, in un regime di profitto, ovvero nella logica mercantile di massimizzare i ricavi e minimizzare le perdite. E’ etico, morale, opportuno e socialmente accettabile che si lucri su beni, o su servizi, destinati a persone probabilmente insolventi, visti i chiarori di luna? E quale concorrenza si avrebbe in un sistema, come gli ambiti territoriali ottimali, in cui l’azienda gestore opera in sostanziale regime monopolistico? Quale vantaggio ne deriverebbe dall’apertura al mercato? La seconda questione riguarda la sostenibilità ambientale di un’operazione che presuppone che le imprese a capitale privato opereranno su acqua, rifiuti, ecc., per aumentare i propri margini operativi. Opereranno, infischiandosene del fatto che dovrebbero garantire un minimo vitale di acqua per tutti e sfruttando risorse per guadagnare il più possibile, incuranti del fatto che queste prima o poi finiranno e che questo mondo basta per le esigenze di ognuno di noi ma non per l’avidità di pochi. “Muore il Mercato per autoconsunzione. Non è peccato, e non è Marx & Engels. E’ l’estinzione, è un ragazzino in agonia“.


Immagini tratte da: centralsnark.files.wordpress.com – wikipedia.com – 1.bp.blogspot.com – kallberg.blogs.com

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William Domenichini

William Domenichini

Nato alla Spezia nel 1978, è dipendente di azienda. Coordinatore della redazione di InformAzione Sostenibile, da anni coltiva la passione per la scrittura,, contribuendo anche ad altre appzine come L’Indro, Manifesti(amo) e DemocraziaKm0. Coautore del libro/dossier sugli abbandoni delle aree militari “Riconversioni urbane” (!Rebeldia Edizioni), ha pubblicato nel 2018 il romanzo partigiano "Fulmine è oltre il ponte" (Ed. Marotta&Cafiero)..

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