I nuovi percorsi dell’acqua, tra cambiamenti climatici e mutamenti territoriali

I nuovi percorsi dell’acqua, tra cambiamenti climatici e mutamenti territoriali

di William Domenichini

Dallo stato di calamità a quello d’emergenza, il leitmotiv relativo al clima, ed alle conseguenze delle sue manifestazioni, pare sia straordinarietà, come a motivare l’incapacità collettiva di prevenire, o limitare, alluvioni, tracimazioni di fiumi, allagamenti, frane e smottamenti. Se è vero come è vero che «i processi ecologici non possono essere beffati», stupisce la modalità con cui certi politicanti si accapigliano tentando di negare l’evidente cambiamento climatico e le sue conseguenze, e sconcerta la conclusione fallimentare del vertice sul clima di Copenaghen, quando la realtà delle cose indurrebbe a ricorrere al buon vecchio metodo scientifico: oggettività, affidabilità, verificabilità e condivisione.

Il primo indizio della nostra indagine sono le modificazione delle condizioni al contorno, soffermandoci su alcuni dati climatici prima di entrare nel merito di considerazioni di altra natura. Non domandiamoci se il clima sta cambiando: è già cambiato. Una delle dimostrazioni sono gli eventi dal 21 al 24 dicembre 2009 in provincia: una media di 200 mm di pioggia, preceduti da una copiosa nevicata che sciogliendosi, con uno shock termico in cui le minime vanno da -7 a 12°C e le massime da 3 a 15°C, incrementa l’afflusso idrico (Dati ARPA Liguria).

Una sorta di sinusoide metereologica che delinea un quadro eufemisticamente inusuale per un clima che, fino a pochi anni fa, era classificabile come sub-litoraneo appenninico mentre oggi assume una connotazione arlecchinesca che diventa addirittura drammatica se si tiene conto che le stime previsionali, basate sui dati idro-pluviometrici dei bacini idrici e pubblicati negli annali del Servizio idrologico italiano, statisticamente non sono più attendibili.

Ne consegue l’inadeguatezza delle opere di difesa del suolo presenti sul territorio, così come quella degli strumenti di pianificazione che zonizzano aree esondabili in funzione di tempi di ritorno imprecisi. Banalmente, il territorio non risponde con “naturalezza” ad una variazione così repentina del clima, reagendo incurante degli elementi antropici, o dell’inadeguatezza delle loro difese, talvolta sovrastandoli. Con il clima muta anche l’elemento temporale: l’impulsività degli eventi meteorici rende improbabile ottenere un modello riproducibile e verificabile di questi fenomeni, venendo meno ipotesi sostanziali, come la stazionarietà e la linearità degli eventi, fondamentali per fare previsioni attendibili.

Il secondo indizio riguarda l’uomo, le sue (in)attività e le sue imperizie. Sgombriamo il campo da ogni possibile equivoco: l’uomo trasforma il territorio in cui vive, è un fatto ineludibile, ma gli effetti di tali cambiamenti possono essere irreparabili se i parametri di trasformazione sono speculazione, sfruttamento, o semplicemente abbandono ed incuria del territorio, piuttosto che rispetto, tutela e valorizzazione globale. Non si tratta quindi di trovare l’elemento causale, la chiave di volta che regge un sistema, ma di individuare un insieme di fattori che, in una sorta di sovrapposizione delle cause, ha scatenato una serie di reazioni su un sistema complesso ed alterato, attraverso più variabili, il cui effetto è la somma di tali elementi.

L’antropizzazione “deregolata” è tra i fattori più significativi, rubando terreno alle pianure fluviali attraverso l’arginatura dei corsi che aumenta il rischio di esondazione nei tratti più a valle, in seguito all’aumento delle portate in alveo, ma soprattutto intervenendo sulla modificazione del deflusso delle acque meteoriche. Il progressivo abbandono della coltivazione dei terrazzamenti collinari ha portato ad un indebolimento delle resistenze geotecniche, ad un peggioramento della regimazione delle acque di scolo, banalmente ad una minor presidio e quindi ad una mancanza di costante monitoraggio del territorio. A questo consegue anche una minore prevenzione sugli incendi che, nel distruggere il patrimonio vegetativo, diminuiscono la tenuta dei pendii aumentando il fattore erosivo. Infine una scorretta gestione delle acque, a partire dai corsi torrentizi fino ad arrivare alla diffusa tombatura di piccoli canali che in condizioni estreme agiscono con pressioni insostenibili, convoglia migliaia di metri cubi d’acqua in brevi intervalli di tempo.

Si ripropone il fattore tempo: al cambiamento della tempistica dei fenomeni atmosferici segue un cambiamento dei tempi legati ai fenomeni idrologici, tecnicamente un restringimento dei tempi di corrivazione dei bacini idrici. In altre parole cade più acqua piovana che impiega meno tempo per raggiungere la foce dei fiumi, da un lato il territorio non sopporta un apporto meteorico eccessivo ed impulsivo, dall’altro risponde violentemente per trasportare l’acqua a valle del bacino idrico. Così è successo a partire dalla notte del 24 dicembre 2009, ed il teatro di tale ribellione naturale sono stato le province della Spezia, Massa-Carrara, Lucca e Pisa, o meglio, i bacini idrografici del Magra e del Serchio. Solo la casualità ha impedito che vi fossero vittime.

Alle prime luci dell’alba del giorno di Natale, una paleofrana, in località Torenco nel comune di Follo, si riattiva e muove verso valle un pendio largo circa 150 metri e lungo 500. Circa 60.000 mq di terra si spostano, lambendo il centro storico, rendendo inagibili 5 abitazione e danneggiando seriamente le urbanizzazioni della frazione. L’aumento degli sforzi di taglio nel terreno, l’aumento delle pressioni interstiziali dovuto alle precipitazioni meteoriche ed alle azioni di origine antropica sono tra le cause primarie di un scivolamento franoso mai ricordato a memoria d’uomo nella bassa val di Vara. L’intera provincia della Spezia è falcidiata da altre frane che, nonostante la minore entità, evidenziano la fragilità di un territorio da un lato sempre più abbandonato, dall’altro protagonista di un’antropizzazione sempre più lasciata alle regole, per modo di dire, “immobiliaristiche”.

Alle tre di notte il fiume Magra esonda, allagando le zone a sud del ponte della Colombiera, Fiumaretta e Bocca di Magra, nel comune di Ameglia, causando gravi danni ed oltre mille sfollati. Un caso emblematico: due alluvioni in un anno, tutte nella parte terminale dell’asta fluviale del fiume tosco-ligure. Un caso? Certo che no. Il bacino idrico del fiume manca totalmente di interventi che riducano la portata di piena, attraverso sistemi di laminazione come le casse d’espansione, o che permettano l’aumento della capacità di filtrazione e dei tempi di formazioni delle piene, con pratiche che riducano l’erosione, ed il conseguente trasporto detritico a valle, come il rimboschimento e il sostegno all’agricoltura montano-collinare. A queste condizioni si aggiungono due elementi: la mancanza di manutenzione degli alvei fluviali e le pessime condizioni del mare che rendono difficoltoso il regolare deflusso del fiume.

Contemporaneamente al Magra, il fiume Serchio sfonda l’argine destro all’altezza di Nodica, in provincia di Pisa, allagando in poco tempo la piana adiacente, fino a lambire il lago di Massaciuccoli,  interrompendo la statale Aurelia e l’autostrada A12 ed inondando il casello autostradale di Pisa Nord. Per molti una rottura inspiegabile, perché avvenuta in un tratto rettilineo e tenuto sotto costante manutenzione, tuttavia i tecnici sono lapidari: gli argini sono stati indeboliti da due piene consecutive nel giro di poco tempo, e dall’aumento delle filtrazioni d’acqua, rese ancora più incisive dall’aumento dei livelli di piena, come hanno dimostrato la presenza di alcuni fontanazzi.

Un antico proverbio arabo recita che «l’odore dei soldi fa deviare anche il corso dei fiumi», mentre le moderne politiche occidentali dimenticano i beni comuni in favore del profitto, la difesa del territorio, il sostegno dell’agricoltura rurale, la gestione delle acque, favorendo opere inutili o dannose. Non scomodiamo casi nazionali (ponte sullo stretto, TAV, Mose, ecc.), pensiamo ai nostri comuni, dove si preferiscono opere elettoralmente accattivanti, o oneri di urbanizzazione, piuttosto che investire sulla sua messa in sicurezza e di conseguenza un percorso di “legalità ecologica”.

La nostra indagine deve riportarci, è il caso di dirlo, nell’alveo di un ragionamento complessivo: per affrontare, comprendere e magari risolvere in qualche misura il pasticcio in cui ci siamo cacciati attraverso i cambiamenti globali occorre riconoscere la vera natura della Terra, pensarla come il più grande essere vivente nel sistema solare, piuttosto che come un entità inanimata da cui attingere risorse illimitate, dunque cambiando le regole del gioco a monte dei problemi e tenendo ben presente che «i mezzi con cui un uomo influenza un altro uomo fanno parte dell’ecologia delle idee che governano la loro relazione e fanno parte del più ampio sistema ecologico entro il quale si colloca questa relazione».

Ciò nonostante in virtù dell’articolo 15 del decreto 135/09, voluto dal centrodestra e votato anche da quel che rimane del centrosinistra in Parlamento, entro il 2012 l’affidamento della gestione dell’acqua andrà a favore di imprenditori, o di società in qualunque forma costituite, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica o, in alternativa, a società con capitale privato non inferiore al 40%. La domanda che ci attanaglia è tanto semplice quanto retorica: nei nuovi bilanci societari, l’acqua piovuta dal cielo, l’acqua esondata dai fiumi, l’acqua infiltrata nelle frane, verrà messa in attivo o in passivo? A tale provocazione, in virtù della secolare esperienza del “para”capitalismo all’italiana, possiamo azzardare un’altrettanta provocatoria quantomai verosimile risposta: privatizzeranno i ricavi, socializzeranno le perdite.

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William Domenichini

William Domenichini

Nato alla Spezia nel 1978, è dipendente di azienda. Coordinatore della redazione di InformAzione Sostenibile, da anni coltiva la passione per la scrittura,, contribuendo anche ad altre appzine come L’Indro, Manifesti(amo) e DemocraziaKm0. Coautore del libro/dossier sugli abbandoni delle aree militari “Riconversioni urbane” (!Rebeldia Edizioni), ha pubblicato nel 2018 il romanzo partigiano "Fulmine è oltre il ponte" (Ed. Marotta&Cafiero)..

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