Chi rosicchia la FAO

Chi rosicchia la FAO

di Daniela Binello

Mickey-Fao, come tutti i topolini, adora vivere nell’isola del formaggio. E’ un paradiso di groviera inaccessibile, in cui lui ha scavato artatamente le sue tane. Non esiste un gatto così audace che possa andare a stanare Mickey-Fao, il quale è ormai così grasso e tronfio da fare schifo. Last but not least, l’arcipelago delle United Nations dove si trova l’isola di Mickey-Fao, è extra giurisdizione.

 

Nascita e motivazioni
65 anni fa, quando nacque la Fao, si contavano centinaia di milioni di affamati e malnutriti soprattutto a causa della catastrofe della seconda guerra mondiale. Diversi studiosi del problema della nutrizione umana hanno focalizzato la loro attenzione sul fatto che la «razione alimentare media per ogni abitante del pianeta è aumentata del 23 per cento dal ‘45: ma la disponibilità delle risorse alimentari resta profondamente iniqua, trattandosi evidentemente di un problema di distribuzione delle risorse».
Secondo il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, «in tre delle quattro regioni del mondo in via di sviluppo il numero di persone malnutrite è stato maggiore negli anni 2000-2002 che negli anni 1995-1997». Con un balzo in avanti di 100 milioni di persone in più rispetto all’anno precedente, nel 2009 il numero degli affamati ha raggiunto quota 1,02 miliardi.
E’ utile chiedersi, allora, se la pretesa di una «giustizia sociale su scala globale» abbia concretamente un senso, al di là di ogni legittimo ideale di solidarietà. Un professional, che preferisce restare anonimo nel suo interesse, ci ha spiegato che la Fao è un <<grande ministero mondiale dell’agricoltura che risponde a ciò che gli chiedono i Paesi membri>> e che considerare la fame un problema globale <<è sbagliato perchè ci sono nazioni che sono state virtuosamente in grado di affrancarsi da questa condizione ed altre che invece non lo saranno mai, dovessero passare altri duemila anni>>. Perchè, si chiede lui, l’India e il Vietnam o l’Armenia sono stati capaci d’emergere da una situazione di sottosviluppo e lo Zimbabwe, che durante il colonialismo era chiamato il “granaio dell’Africa”, non ce la farà mai? Già. Perchè? Come mai non si fa una lista dei Paesi “buoni”? <<Non la si fa – risponde l’esperto – perchè apparirebbe altrettanto evidente chi è “cattivo” e questo, per la legge del multilateralismo che ci è stata imposta, è un tabù>>. Se ne deduce, allora, che la questione del multilateralismo è un tasto delicato.

Evoluzione dell’esperienza
E’ con la guerra civile del Biafra, consumatasi dal 1967 al 1970 in Nigeria, che emerge il nuovo contesto dell’intervento umanitario così come lo conosciamo oggi. Quella guerra civile, talmente cruenta e devastante da uccidere soprattutto per fame e malattie tre milioni d’africani, fece scattare la molla “dell’ingerenza umanitaria” in un gruppo di medici francesi come un nuovo modello d’interferenza internazionale in uno stato sovrano. Fra quegli attivisti c’era anche Bernard Kouchner che nel 1971, in seguito all’esperienza del Biafra, è fra i fondatori dell’Ong Medici Senza Frontiere.
E’ la guerra, infatti, il nocciolo centrale che “giustifica” l’ingerenza in uno stato sovrano, in quanto come affermato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite <<alcune situazioni di guerra rappresentano minacce per la pace>>. Lo dice, innanzitutto, la Carta delle Nazioni Unite, che rappresenta un grande salto nel cammino della civiltà, ma che è segnata da forti limiti e da vere e proprie contraddizioni: predica fin dal preambolo la pari dignità di tutti i popoli e di tutte le nazioni grandi e piccole, però riserva un potere decisivo a un particolare organo solamente, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel quale soltanto cinque nazioni hanno il diritto di veto e quindi, sostanzialmente, di decidere e disporre.
Dagli anni ’80, poi, prendono corpo con sempre maggiore enfasi i concetti di multilateralismo e governance, i quali sono strettamente correlati al modus operandi della globalizzazione e delle sue istituzioni, cui fanno da contraltare quelle non governative.
La Fao fa parte dell’ingranaggio. Il mandato Onu della Fao è di promuovere e coordinare politiche internazionali per combattere la fame nel mondo, accrescere i livelli di nutrizione, aumentare la produttività agricola dei Paesi in via di sviluppo, migliorare le condizioni (soprattutto alimentari) delle popolazioni rurali nei Paesi più arretrati e contribuire alla crescita economica globale.
Il mandato, perciò, si capisce, non è di sfamare i poveri tout court.

Gestione e costi
Pochi sanno, però, che solo un terzo del budget della Fao è impiegato per attuare le politiche alimentari e agricole. Gli altri due terzi del budget vengono assorbiti dai costi di gestione per la struttura e il personale.
Nel biennio 2008-2009, la Fao ha potuto contare su 930 milioni di dollari grazie ai contributi percentuali di ognuno dei 193 Paesi membri (più 800 milioni di donazioni extra) dei quali soltanto 248 milioni, ossia il 27 per cento, è stato destinato concretamente al settore dell’alimentazione e dell’agricoltura. Il resto è stato speso in burocrazia. Per il biennio 2010-2011 il budget è fissato in circa mille milioni di dollari (oltre a 1.200 milioni di cosiddetto extra budget per progetti sul campo finanziati da Paesi donatori, Bm, Ue e altri organismi mondiali).
Jacques Diouf, 72 anni, senegalese, è stato eletto direttore generale della Fao la prima volta nel 1993 e riconfermato nel 1999. Ma è stato ulteriormente rieletto nel 2005 in deroga al regolamento che non prevedeva un terzo rinnovo. Resterà in carica fino al 2011.
Alla Fao lavorano circa 1.600 professional con funzioni tecnico-amministrative e manageriali e 2mila general service staff con mansioni impiegatizie per i servizi generali. Di questi, circa la metà lavora nella sede centrale a Roma, mentre gli altri sono dislocati in oltre cento Paesi in tutto il mondo. <<I contratti, come i salari – chiarisce Robert Weisell della Fao –, non dipendono dal Paese in cui vengono applicati, ma sono decisi a livello centrale internazionale e, in particolare per gli impiegati dello staff, hanno una durata di 3 o 4 mesi, venendo rinnovati anche per sei anni>>.
Secondo Il Sole 24 Ore il costo del personale incide per il 15 per cento sul bilancio della Fao. Tradotto in altre parole significa dodici mensilità (da 24mila euro a 60mila euro netti l’anno per lo staff e da 24mila a 84mila euro netti l’anno per i professional), nessun trattamento di fine rapporto per i professional e i dirigenti (bensì una specie d’indennità di liquidazione soltanto per lo staff) e un trattamento pensionistico al 70 per cento dello stipendio calcolato sugli ultimi anni di lavoro (a chi non raggiunge il minimo pensionistico in base alle annualità vengono restituiti i contributi previdenziali, senza alcun diritto alla pensione). A ciò si aggiungono i benefits per l’alloggio (gran parte del personale è straniero) e una copertura sanitaria assicurativa che, però, si deve pagare. La terza categoria, ovvero i dirigenti, che sono quasi sempre stranieri, gode di contrattazione a parte.

Qualche interrogativo
Nel 2007 la Fao è stata oggetto di una verifica amministrativa da parte di una Commissione esterna guidata dall’economista Leif Christoffersen e voluta dall’Onu stessa. <<In molti uffici – recita un passaggio del rapporto di valutazione – i costi amministrativi sono superiori ai costi del programma>>. Inoltre, la parola food compariva solo tre volte nel bilancio per un totale di 90 milioni di dollari su circa 784 (nel 2006-2007), mentre per riunioni varie si spendevano 200 milioni, e proprio questa parte fu piuttosto criticata dal rapporto di valutazione poiché «tecnici specialisti non possono viaggiare per mancanza di fondi destinati alle missioni». In pratica, si studiano progetti che poi non possono essere condotti sul campo. La sede Fao più costosa, poi, è risultata essere quella di Bangkok (18 milioni di euro).
Resta anche difficile da capire come possano esistere altre Agenzie dell’Onu che si occupano degli stessi problemi, come il Fondo Internazionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura, il World Food Programme, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (in totale spendono circa dieci miliardi di dollari).
Abdoulaya Wade
, il presidente del Senegal, un paio di anni fa disse a mo’ di provocazione: <<La Fao deve chiudere>>.
Ci si farebbe volentieri un pensierino.

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redazione

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