Piogge, frane, inondazioni e danni a Genova, Provincia e dintorni. Ciclo stagionale 2013 – 14

Alessandro Tomaselli  (05/02/2014 – 30/03/2014)

 

I Principali eventi di frana, inondazione, erosione e mareggiata del periodo Ottobre 2013 – Febbraio 2014.

 Il ciclo stagionale autunnale e invernale appena concluso è stato drammatico nella Provincia di Genova, per il numero di vittime (3) causate dall’interazione fra processi idrogeomorfologici ed elementi a rischio, secondo solo, negli ultimi venti anni, al 2011. L’autunno e l’inverno sono stati caratterizzati, in particolare, dalla più grande quantità di pioggia degli ultimi 25 anni e dal conseguente carico di frane, inondazioni, erosioni e mareggiate. Il fenomeno più importante, dal punto di vista delle conseguenze, è senza dubbio costituito dal processo fluviale, caratterizzato dalla concomitanza di una piena con l’erosione del fondo, che ha causato il crollo di un ponte stradale e la morte di due persone a Carasco, il 22/10/2012, tra le due e le tre del mattino (ora locale). Un secondo evento tragico è stato l’inondazione, pur modesta per estensione, avvenuta in località Campo a Sessarego, nel Comune di Bogliasco. L’onda di piena qui ha scavalcato un ponticello sul Rio Sessarego il 19/01/2014 tra le 14:25 e le 15:05. Occorre citare, inoltre, per importanza, la frana avvenuta il 17/01/2014, fuori dalla Provincia di Genova, sul binario unico della ferrovia tra Savona e Ventimiglia, nel Comune di Andora. La massa detritica che si è spostata qui è stata stimata in 30.000 m3 e ha fatto scivolare un manufatto posto nei pressi della corona (ciglio), una terrazza, costruita nel 1964 davanti a una coeva villetta (Via Aurelia 109). Si è verificato qui che la terrazza era stata interessata da un successivo ampliamento e trasformazione in parcheggio (titolo edilizio del 1992, vedi, ad esempio, Timossi, 2014). Occorre sottolineare la presenza, sempre nei pressi della corona, di un altro parcheggio (stavolta irregolare) e la sua strada di accesso.

Il caso franoso più eclatante in Provincia di Genova si è verificato, invece, il 19/01/2014 a Genova Nervi, sul settore costiero di levante. La frana ha interessato, anche in questo caso, una terrazza, appartenente a una villetta (autorizzata) del ‘700, costruita quasi a perpendicolo sul mare, sopra una scogliera battuta dalle mareggiate e notevolmente esposta all’erosione marina. Le prime stime sui danni restituiscono qui come risultato un valore economico di 1.000.000 €. Un piccolo “drone” (aereo senza pilota, comandato a distanza) qui è stato sperimentato per fornire immagini di dettaglio, importanti, insieme a quelle precedenti e successive agli eventi, per rilevare aspetti della geologia di una frana come, ad esempio, il sistema di fratturazione delle rocce ma anche la presenza dei manufatti al contorno. Si è osservare, a tale proposito, in immagini precedenti, la presenza di opere di difesa dall’erosione, immediatamente a ponente e, più distanti, a levante della frana occorsa. Un altro evento franoso di una certa gravità è stato quello del 27/12/2013, avvenuto tra Ferriere e Lumarzo, lungo la strada provinciale n. 225. Tale frana ha peggiorato l’isolamento della Val Fontanabuona causato dal crollo del ponte di Carasco di due mesi prima. Un ulteriore fenomeno idrogeologico importante è accaduto l’11/01/2014 a Genova Sestri Scarpino. Le vasche di raccolta del percolato, proveniente dalla grande discarica di rifiuti solidi urbani di Genova, hanno superato il colmo riversando una notevole quantità di liquami azotati nel Rio Cassinelle, che, insieme al Rio Bianchetta, forma, più a valle, il Torrente Chiaravagna. L’evento è facilmente correlabile con la presenza di numerose sorgenti sotto il corpo dell’accumulo più antico, rispetto alle quali non fu preso, all’epoca (fine anni “60), nessun tipo di accorgimento. Il fenomeno è aggravato dalla persistente mancata raccolta separata della frazione organica per l’avvio ai (pochi) impianti di compostaggio.

La maggior parte delle frane dell’ultima stagione sono avvenute nei comuni del primo entroterra. Borzonasca e Mezzanego, in particolare, ne hanno subito complessivamente un’ottantina su un totale di 354, quasi tutte il 22/10/2013. A Borzonasca, in particolare, è da citare la frana che ha interessato il condominio in cui abita il primo cittadino. Qui e in altre parti del territorio si è sfiorata la tragedia per l’elevata fluidità delle masse detritiche scivolate che hanno invaso non solo scantinati e piani interrati ma interi appartamenti. È stato colpito anche il campo sportivo che era stato da poco “risistemato”. Neanche i comuni costieri, tuttavia, sono stati risparmiati. A Genova sono avvenute più di cinquanta frane ed un numero elevato si è concentrato su Sestri levante, Lavagna e Chiavari. Dall’entroterra più lontano, invece, è giunta notizia di meno di 25 frane. Un fenomeno spesso sottovalutato ma sempre più importante per gli effetti dannosi sui manufatti esposti è quello delle mareggiate. Le principali dell’ultima stagione autunnale e invernale si sono avute negli ultimi due mesi nel 2013. Le più intense sono avvenute nei giorni intorno al 2 Novembre, quando hanno colpito soprattutto Riva Trigoso a Sestri levante e le passeggiate di Zoagli, e il 26 Dicembre quando è stata interessata tutta la costa da Genova Voltri a Sestri levante, con altezze fino a 9m, nel Porto di Genova, e due feriti fra S. Margherita e Rapallo.

 

Precipitazioni, frane e inondazioni del Periodo 2000 – 2014.

I fenomeni naturali tendono a ripetersi nel tempo con frequenze non facilmente determinabili. È importante, perciò, osservare i processi per intervalli di tempo e metterli in relazione alle cause. Qui si sono analizzate, a puro titolo di esempio, le piogge, in una stazione costiera presa a riferimento, e le frane avvenute nella Provincia di Genova nel periodo successivo al 2000. Dal 2000 al 2014, ad esempio, si è avuta notizia di quasi 2000 frane e  più di 150 eventi di inondazione. Gli anni peggiori, da questo punto di vista, sono stati il 2000 (389 frane e 10 inondazioni), il 2002 (242; 9), il 2010 (303; 38), il 2011 (211; 40) e il 2013 (264; 21). È nota da tempo, in generale, la relazione tra frane, inondazioni e precipitazioni. Le frane sono correlate, in particolare, al verificarsi di precipitazioni intense o prolungate. Dal 2004 al 2007, ad esempio, si è avuto un periodo caratterizzato da basse altezze di precipitazione per unità di superficie (sulla costa generalmente inferiori ai 1000 mm/m2). In quell’intervallo di tempo si sono verificate meno di 70 frane e di 4 inondazioni ogni anno. Vi è poi da considerare un ritardo nell’innesco delle frane e nel picco delle piene, dovuto alle condizioni di saturazione  dei primi strati di coltre detritica e roccia fratturata del sottosuolo e del tratto di percorso dell’acqua che avviene lungo la superficie dei versanti (ruscellamento). Gli strati sotterranei di detrito e roccia fratturata, in particolare, vanno considerati veri e propri serbatoi d’acqua. Nel 2008, infatti, secondo un altro sia pur grossolano esempio, prendendo a riferimento la costa, le precipitazioni sono aumentate fino a raggiungere quasi 1500 mm/m2 ma le frane e le inondazioni sono rimaste più o meno quelle verificatesi due anni prima (una settantina le prime, due le seconde, vedi grafici). Solo l’anno successivo (il 2009), a fronte di un modesto incremento delle precipitazioni, si è avuto un apprezzabile incremento delle frane (più che raddoppiate) e un piccolo incremento delle inondazioni (10). L’incremento delle precipitazioni, anche se distribuito nel tempo, tende, quindi, a riempire le falde acquifere e a creare da solo condizioni già critiche per l’innesco di movimenti gravitativi e onde di piena potenzialmente pericolose. Un ulteriore impulso, ovviamente, è poi determinato dalle piogge intense, caratterizzate da grande altezza e breve durata (si utilizza spesso la soglia di 50 mm/m2/ora). I serbatoi acquiferi geologici, prossimi alla saturazione, ad esempio, possono andare in crisi con picchi di pioggia concentrati in serie di 15 o addirittura di 5 minuti, come è accaduto nel 2010. Quell’anno, ad esempio, a fronte di un ulteriore modesto aumento di precipitazione annua (fino anche a 1700 mm/m2 sulla costa) si ebbero un forte aumento delle frane (più di 300 in tutta la Provincia, con una vittima) e 38 inondazioni. Le piogge si concentrarono particolarmente in una giornata (il 4 ottobre) e in poche ore, soprattutto a Genova Sestri ponente. Il livello dell’acqua nel sottosuolo è, perciò, talmente importante che possono occorrere due anni relativamente asciutti per ottenere un decremento significativo dei dissesti. Il 2011, ad esempio, a fronte di un’altezza di pioggia annua inferiore a 1300 mm/m2, fu interessato da un alto numero di frane (211) e 40 inondazioni con drammatici effetti (6 vittime) perché 600 mm/m2 caddero nel solo mese di Novembre, con una concentrazione particolare il giorno 4 nel bacino Fereggiano a Genova Quezzi. Solo nel 2012, invece, pur con un livello di precipitazioni simile a quello dell’anno precedente (inferiore a 1300 mm/anno e meglio distribuito) si ebbero relativamente poche frane (63) e meno di 10 inondazioni.

Il 2013 appena concluso è stato di nuovo molto piovoso già a partire dalla primavera comportando una nuova recrudescenza dei fenomeni franosi (264) e delle inondazioni (21). La recrudescenza è proseguita nel 2014 con grandi precipitazioni, frane (92) e inondazioni (8) a Gennaio e Febbraio e quindi ci si può attendere, per il futuro, ancora un periodo non breve, quantomeno, di frane e allagamenti, anche in assenza di precipitazioni particolarmente intense o prolungate. Diventano, in particolare, sempre più importanti, negli ultimi tempi, i fenomeni di allagamento perché conivolgono facilmente attività umane di grande importanza. Si tratta di fenomeni che si possono distinguere dalle inondazioni perché non è il corso d’acqua superficiale a provocarli ma il ruscellamento lungo i versanti, sempre più impermeabilizzati e interessati da opere di regimazione, o, a volte, l’innalzamento della falda freatica. Dal 2012 al 2014, ad esempio, si è avuta notizia di più di 40 eventi di allagamento nella sola Provincia di Genova. Questi tendono ad essere più numerosi rispetto alle inondazioni e non necessariamente correlati a piogge intense o prolungate. Nel 2012, ad esempio, a fronte di un livello di precipitazioni inferiore a 1300 mm/anno, gli allagamenti sono stati 3 mentre nel 2013 e nell’anno appena iniziato ne sono già avvenuti una quarantina in relazione a grandi quantitativi di pioggia non particolarmente concentrata.

 

Le altre cause dei processi idrogeomorfologici

La pioggia è un fenomeno meteorologico cui non possiamo e non dobbiamo, ovviamente, porre rimedio ma le altre cause dei dissesti possono essere approfondite per poterne mitigare, quantomeno, le conseguenze. La Liguria giace, per lo più, su una superficie corrispondente, in prima approssimazione, a un irregolare piano inclinato, solcato da infinite incisioni, il cui colmo è posto sullo spartiacque ligure – padano (a quote comprese tra 500 m e 2000m circa), con la base costituita dalla linea di costa (distante dal crinale fra 5 km e 40 km). Se la distanza fra queste due linee fosse ovunque di 10 km e il dislivello di 1500 m, l’inclinazione sarebbe del 15% (circa 8,5°). Hanno bassa probabilità di scivolare, in queste condizioni, strati superficiali di terreno costituiti da piccoli spessori di detrito di sabbia argillosa, ghiaiosa e limosa con parametri geotecnici di resistenza elevata, come forza o peso per unità di volume superiori a 20 kN/m3, pressione della coesione drenata o efficace di picco pari a 20 kPa, angolo di attrito efficace superiore a 35°, profondità della falda superiore allo spessore dello strato, nessuna sovrappressione da parte dell’acqua, bassa azione sismica e una copertura vegetale idrogeologicamente efficiente. L’aumento della pendenza che si verifica, però, in corrispondenza delle incisioni vallive o in presenza di coste alte e rocciose (molto frequentemente maggiore di 35°), riduce drasticamente la stabilità dei pendii, specie se lo strato superficiale di terreno è costituito da una coltre detritica più spessa, composta da eluvi (disfacimento della roccia sottostante), colluvi (accumuli provenienti da monte) e roccia fratturata o anche da colluvi sabbiosi, limosi, argillosi e ghiaiosi o ancora da terreni argillosi con blocchi, dove la forza o peso per unità di volume si riduce a meno di 15 kN/m3, la pressione della coesione drenata o efficace è pari a 0 kPa, l’angolo di attrito efficace è inferiore a 25°, la profondità della falda si riduce a 1 m o affiora (come durante le piogge intense o prolungate), aumentano le sovrappressioni, da parte dell’acqua nel terreno, o l’azione sismica, per non parlare dei terreni di riporto non adeguatamente compattati o delle discariche di rifiuti, potenti strati di materiale eterogeneo, inconsistente, dalle caratteristiche geotecniche di resistenza molto più scadenti. I fondovalle pianeggianti, invece, alla base dei pendii, sono gravati da un problema opposto. Raccolgono, cioè, tutte le acque che prima o dopo, velocemente o lentamente, scolano lungo i versanti creando ovvi pericoli di allagamento e inondazione. Gli allagamenti, in particolare, rispondono con tempi brevi alle precipitazioni, a causa della attuale massiccia impermeabilizzazione del terreno che potrebbe essere anche la causa della non correlazione con piogge intense o prolungate. L’instabilità aumenta se strati e versanti con queste caratteristiche vengono tagliati da scavi che richiedono di essere contrastati da opere di sostegno opportunamente dimensionate. Tali opere hanno un costo economico che induce spesso, nell’esecuzione, al risparmio o al sottodimensionamento o a una bassa durevolezza (oggi è stato introdotto, ad esempio, il parametro “Vita media” delle costruzioni, che, per la maggior parte viene stabilito in soli 50 anni); nel passato tale parametro non veniva sempre considerato ma possiamo pensare, a conti fatti, che valesse più di 50 anni. Oggi, tuttavia, cominciano a emergere i limiti e le conseguenze, in termini anche economici, dovuti allo scorrere del tempo (vedi, ad esempio, il muraglione altissimo di Genova Lagaccio Via Ventotene, franato il primo Aprile dell’anno scorso). I costi di queste alterazioni, tra l’altro, finiscono per essere ingenti per gli interessati e anche, spesso, per la collettività. Le spese dello scavo iniziale e dell’opera di sostegno, ad esempio, in prima analisi, sono sobbarcati dal costruttore e dal proprietario del fondo, il quale a sua volta lo può scaricare sull’inquilino. La manutenzione potrà toccare, molti decenni dopo, ad altri (spesso ignari) proprietari e inquilini e se non verrà affrontata in tempo esporrà l’opera a una frana con danni ancora maggiori e intervento, innanzitutto, a carico della collettività, ad esempio sulla base del principio di tutela della pubblica e privata incolumità. L’ente pubblico competente (il Comune) si rivarrà, poi, dopo lunghi anni di cause civili in tutto o in parte sui proprietari.

In altri casi le opere di sostegno non vengono nemmeno eseguite. È il caso di lunghe porzioni delle principali strade dell’entroterra. Non potremmo immaginare, del resto, di realizzare una fila continua di muraglioni a monte e a valle delle strade sia per le ulteriori conseguenze negative sulle aree circostanti per ostacolo ai deflussi sotterranei e per l’impermeabilizzazione verticale sia per motivi paesaggistici o ambientali. I corsi d’acqua, analogamente, nelle aree sovra – edificate, sono stati rettificati per cui se non vengono irreggimentati entro altri alti muraglioni d’argine, finiscono per inondare le aree adiacenti. Realizzare, anche in questo caso, una fila continua di prominenti muraglioni d’argine altera definitivamente, in un circolo vizioso, gli equilibri e gli scambi fra le acque del versante e quelle del corso d’acqua, fra i deflussi sotterranei e quelli superficiali col probabile aumento degli allagamenti e dell’intensità delle inondazioni per tempi di ritorno superiori a quelli di progetto, oltre a conseguenze negative sulla qualità delle acque e sul paesaggio. Tali opere, tra l’altro, anche per questo motivo, trovano il dissenso degli abitanti (come dimostra il caso del Fiume Entella).

La progressiva impermeabilizzazione del suolo, legata agli interventi ma soprattutto alle nuove costruzioni e infrastrutture, è un altro elemento fortemente indiziato di costituire una concausa. L’acme di tale fenomeno è avvenuto, nelle grandi città, negli ultimi due secoli. L’espansione urbanistica ed edilizia, inoltre, continua ad aumentare negli ultimi decenni. La distribuzione della superficie di suolo consumata rispetto a quella di suolo libero, ad esempio, a Genova, solo negli anni tra il 1992 e il 2007, è stata di circa il 40 %. Nel territorio circostante le grandi città, inoltre, le espansioni non sono di livello inferiore e caratterizzano spesso i tempi più recenti. In una cittadina del levante della Provincia di Genova, per citare un altro esempio, è stato recentemente analizzato il progredire dell’edificazione nel tempo, su una porzione piuttosto estesa di pendio, basandosi sulla cartografia dal 1934 ad oggi. L’edificazione, sul versante analizzato, è stata rilevante, in particolare, fra il 1934  e il 1979. In questo periodo sono state realizzate strade e si è quasi decuplicato il numero di edifici. Si è proceduto poi, dopo un breve rallentamento, a ulteriori costruzioni fino ad aumentarle di un ulteriore 50 %. Sono emersi, in particolare, massicci interventi di edificazione che hanno interessato gli anni ’’80 e ’’90. In quest’area si sono poi recentemente avuti casi importanti di allagamento al piede del versante. L’incremento di edificazione, in questo caso (ma sono considerazioni molto probabilmente estendibili a porzioni più vaste del territorio) è stato un vero e proprio evento idrogeologico (negativo), specie se rapportato a un ipotetico anno zero cui assegnare un livello zero di opere e quindi di impermeabilizzazione del suolo. La copertura impermeabile, difatti, rappresenta un picco realizzatosi in un intervallo di tempo brevissimo, se confrontato a un periodo di tempo così lungo (si veda, ad esempio, il grafico), con una certa tendenza all’aumento esponenziale. L’impermeabilizzazione costituisce, quindi, una concausa anche per gli allagamenti e, indirettamente, per le inondazioni. Impedire all’acqua di infiltrarsi nel terreno la costringe a scorrere in superficie con maggiore rapidità creando problemi progressivamente maggiori a valle. La situazione si complica se oltre alla superficie viene impermeabilizzato il sottosuolo attraverso strutture interrate. Quel volume viene sottratto alle falde acquifere e all’area di transito dall’acqua di infiltrazione, si aggiunge alle aree allagabili o, peggio, a quelle inondabili e ne determina un innalzamento tanto più grande quanto più piccola è la superficie disponibile per l’allagamento.

Spesso si chiamano in causa l’abbandono e lo spopolamento per motivare i dissesti idraulici, idrogeologici e geomorfologici. La maggior parte degli eventi, però, ha interessato aree non abbandonate e non spopolate. Qui si sottolinea, a puro titolo di esempio, che nell’entroterra più lontano, quello più spopolato, si sono contate, in questa stagione, meno di 25 frane su un totale di 354. La maggior parte delle frane, invece, si sono verificate nel primo entroterra dove è in atto una tenuta se non un incremento demografico e l’aumento delle costruzioni. È più facile, invece, osservare una relazione significativa fra la distribuzione di frane, esondazioni e la presenza di manufatti. La stragrande maggioranza di tali eventi avviene in corrispondenza di opere. Le strade, in particolare, sono fortemente correlate sia con le frane sia con le inondazioni. Le inondazioni, ad esempio, riguardano quasi esclusivamente ponti e arginature e, secondariamente, le strade e le piazze limitrofe in cui si incanalano. Vengono poi interessati i locali dei piani terra e, nei casi più gravi, scantinati e box interrati. Più del 50% delle frane note, poi, sono interessate da strade mentre i manufatti non stradali riguardano più del 5% di tali eventi (vedi grafico). Gli eventi di inondazione più intensi, invece, sono interessati da manufatti non stradali per più del 10%. Nel 2013, poi, più del 22% di allagamenti ha coinvolto opere non stradali e più del 43% ha coinvolto strade. Occorre aggiungere, a tale proposito, che la Liguria è una delle regioni d’Italia col più alto numero di infrastrutture stradali per unità di superficie e che i Comuni sono incoraggiati a incrementare il consumo di suolo sul proprio territorio con le costruzioni, a causa dei tagli sui trasferimenti statali e per l’abolizione dell’ICI – IMU sulla prima casa, anche per le case di pregio (operati, in particolare, dai governi succedutisi dal 2008 in avanti). Le amministrazioni locali, perciò, tendono a monetizzare gli oneri di urbanizzazione e ad aumentare le imposte sulla seconda casa alimentando un distorto interesse “pubblico” verso le nuove costruzioni. Un tipo di manufatto particolarmente critico, nella sua interferenza col terreno, è il tubo. Si osserva spesso, infatti, che le masse di terra franate hanno strappato e portato via tubazioni di vario genere, interrompendo un determinato servizio “a rete” (acquedotto, fognatura, elettrodotto, gasdotto ecc). Lo spazio che si viene a creare attorno al tubo, infatti, può diventare facilmente sede di circolazione d’acqua alterando tutti i parametri di resistenza del terreno. La presenza di manufatti è chiamata in causa anche nel caso delle mareggiate. Una miriade di opere cosiddette di difesa della costa (muri e speroni), a causa del proprio potere di riflettere l’onda incidente, amplificano l’energia delle onde anche fino al doppio, determinando effetti peggiori sulle zone non protette (uno sperone, ad esempio, è presente anche nel caso della frana di Nervi).

Un ulteriore elemento, individuabile come concausa, è il depauperamento progressivo, quasi l’azzeramento del fondo per la difesa del suolo, avvenuto negli ultimi anni. Tale aspetto unito allo sbilanciamento a favore delle casse della Protezione civile alimenta uno stato di continua emergenza che conviene a pochi. Al primo fondo, infatti, compete la prevenzione, attraverso la realizzazione delle opere previste dai Piani di bacino, mentre al secondo si deve attingere (giustamente) solo nei casi di emergenza. Il rischio, invece, è che venga rincorsa sempre l’ultima urgenza. Quest’ultima stagione, ad esempio, i fondi sono apparsi danzare dalla Liguria, alla Toscana e da lì alla Puglia e infine al Lazio con commistioni ulteriori rispetto ad altri capitoli di spesa come strade o agricoltura, rischiando di finanziare anche opere indiziate di favorire i dissesti anziché contrastarli, come il taglio delle coltri detritiche e della vegetazione.

Un altro tema da non sottovalutare, ovviamente, è legato alla regimazione delle acque. Questa nasce per la difesa di singoli manufatti (strade, edifici ecc.) ma l’insieme dei diversi interventi, a scala di versante, senza una riorganizzazione e un coordinamento (drenaggio urbano) si rivela controproducente per i manufatti circostanti e, in generale, per l’assetto idrogeologico del suolo e del sottosuolo, fino a recapitare a valle ingenti quantitativi d’acqua che provocano facilmente allagamenti e, una volta riversati nei corsi d’acqua principali, maggiori portate ed esondazioni in corrispondenza di tombinature, ponti o argini insufficienti idraulicamente.

Altre problemi riguardano la tipologie delle figure professionali chiamate a governare e decidere sulle tematiche idrogeomorfologiche. Alla guida delle filiere decisionali istituzionali (a partire dal livello politico) vi sono soprattutto esperti di costruzioni e non di dinamiche ambientali. La progettazione stessa degli interventi è assegnata, per legge, alle stesse figure (con poche e marginali eccezioni). Il lavoro dei geologi e dei naturalisti ma anche quello dei forestali e degli agronomi diventa, perciò, spesso, solo un pezzo di carta da aggiungere a decisioni prese in base a criteri sempre diversi da quelli di una vera sostenibilità ambientale. Il territorio richiede di assecondare, in una certa misura, i fenomeni naturali a causa del fatto che nel lungo periodo sono inarrestabili. Quest’ultimo approccio, tra l’altro, riduce i costi di manutenzione che gli interventi, le opere e le macchine umane richiedono nel tempo, pena il loro disfacimento più o meno rapido.

Una delle cause che vengono invocate per spiegare i danni avvenuti è la cosiddetta “Burocrazia”. Si tratta di un problema molto legato, tra l’altro, a quello delle figure professionali. La recente accezione negativa, in particolare, ha interessato la burocrazia pubblica, cioè quella deputata all’Amministrazione dello Stato, a tutti i livelli, di pari passo col discredito, sempre crescente, del livello superiore, quello politico. La “Burocrazia”, in realtà, non è che l’insieme di apparati e di persone al quale è affidata l’amministrazione di un ente (pubblico o privato). Secondo Weber (1910), che studiò il fenomeno, gli apparati della stessa si fondano, almeno in linea di principio, su una rigorosa divisione del lavoro, sul sapere e sulle competenze, su gerarchie regolate dal merito, da precisi meccanismi di carriera e, in particolare, su un complesso di norme scritte. Le norme, tra l’altro, sono scritte, generalmente, dai rappresentanti politici per l’interesse della collettività. Governano, pertanto, i rappresentanti del popolo (sempre più subordinati a poteri di natura economica) attraverso le leggi e gli uffici, non la “Burocrazia” di per se. Cause di distorsione possono essere, invece, le leggi stesse quando diventano tante, troppe, contraddittorie e piene di scappatoie. Le montagne di documenti da fornire in ossequio alla Burocrazia, infatti, altro non sono che modelli di ciò che si intende realizzare o di fatti da accertare per la verifica del rispetto delle leggi. Occorre, pertanto, che le “carte”, per prime, siano ben realizzate e verificate.

 

Rischio, interventi, leggi e strumenti di pianificazione

Il parametro fondamentale che misura quanto e dove occorra allarmarsi e intervenire per l’esplicarsi di un dato fenomeno naturale è il Rischio. Il Rischio è il prodotto del Pericolo per la Vulnerabilità dei beni. La legge fondamentale nel campo dei disastri ambientali, nella sua formulazione semplificata, è la seguente:

R = PV

Dove   R = Rischio

P = Pericolo

V = Vulnerabilità

Il Pericolo, inoltre, è la probabilità che un certo evento (frana, sisma, inondazione ecc.) possa verificarsi in un certo istante, in un determinato luogo con una certa intensità mentre la Vulnerabilità è la probabilità che degli elementi esposti a quel pericolo siano danneggiati in una certa percentuale. Il Pericolo può essere espresso, ad esempio, con la frequenza di accadimento e la Vulnerabilità con il numero stesso degli elementi a rischio (ad esempio, i manufatti) o col loro valore economico. Il rischio aumenta, perciò, non solo se aumenta il pericolo ma anche se aumentano gli elementi danneggiabili rispetto a quel pericolo o semplicemente il loro valore economico. Le leggi attuali, nel loro complesso, da questo punto di vista, si rivelano spesso inadeguate a fronteggiare le problematiche di difesa del suolo perché mentre da una parte tendono a ridurre i pericoli e gli elementi a rischio, attraverso le leggi quadro L. n. 183/89 e L. n. 267/1998, incorporate nel D.lgs. n. 152/2006, dall’altra aumentano la Vulnerabilità attraverso la miriade di leggi che spingono l’urbanistica e l’edilizia a sempre nuove e maggiori espansioni, a volte con l’obiettivo (mancato) di una migliore regolamentazione e semplificazione, col risultato di una sempre maggiore impermeabilizzazione dei suoli e dell’aumento di beni esposti al rischio. Uno degli ultimi interventi legislativi in tal senso, ad esempio, è il “Piano casa” che ha trasformato un patrimonio spesso costituito da case rurali di modeste dimensioni, posizionate su versanti inclinati, in complessi edilizi di grandi dimensioni, col un corredo esorbitante di box interrati, altre pertinenze, viabilità d’accesso e muri di cemento. Tale piano nazionale, attivo dal 2009, è stato, purtroppo, recepito e prorogato dalla Regione Liguria per due volte, attualmente fino al Giugno 2015 e, a livello nazionale si pensa ora, tra l’altro, a un ulteriore rilancio. Vincoli fondamentali, viceversa, come quello idrogeologico e quello paesaggistico non sono, come sarebbe meglio che fossero, divieti di edificabilità. I legislatori, in questo senso, hanno permesso, nel tempo, tra l’altro, di ridurre l’efficacia delle leggi istitutive, attraverso certificazioni di compatibilità dei manufatti con il rispetto del paesaggio, della stabilità dei versanti, della regimazione delle acque e della copertura vegetale attraverso un blando controllo pubblico. Gli istituti della Valutazione di impatto ambientale e della Valutazione ambientale strategica, inoltre, soffrono di simili debolezze. Ulteriori recenti pecche normative sono quelle che allargano le possibilità edificatorie nelle zone pericolose, come nelle frane quiescenti in cui ora, a determinate condizioni è ammissibile anche la tipologia edilizia della nuova costruzione attraverso l’adeguamento dei Piani urbanistici comunali. Un ulteriore recente biasimevole allargamento delle maglie riguarda gli impianti a rete, ammessi ovunque (anche nelle frane attive e quiescenti), a determinate condizioni, nonostante siano indiziati di concorrere a causare frane.

L’importanza di leggi preventive che frenino il consumo di suolo è confermata dal fatto che realizzare interventi di difesa e messa in sicurezza veramente efficaci può essere molto difficoltoso, costoso e senza garanzia di risultato. Giungere a una determinazione corretta dei costi, tra l’altro, non è impresa semplice. La quantificazione delle opere di adeguamento delle opere idrauliche, ad esempio, include un numero relativamente piccolo di parametri (portata, altezza del pelo libero, sezione delle opere ecc.) e le aree inondabili sono relativamente poche (e quasi sempre le stesse). Ciò porta, in genere, a un’efficacia degli interventi a breve termine quasi certa ma la messa in sicurezza si realizza attraverso alti muri d’argine (deleteri dal punto di vista della sostenibilità ambientale complessiva e della tutela dell’acqua come risorsa) e riguarda solo portate legate a un determinato tempo di ritorno. I parametri di ingresso e di uscita, inoltre, sono interessati, inoltre, da margini di incertezza che possono arrivare al 30%. Il loro significato, pertanto, è da intendersi in senso relativo e non assoluto. Il problema delle opere di difesa dalle frane è, poi, ancora maggiore. Le forme franose che interessano il territorio sono di grandi dimensioni ed è impensabile bloccarne l’evoluzione, perché impossibile, dannoso per altri motivi o molto costoso. Fra le restanti superfici, non interessate da frane conclamate, vi sono poi numerose ed estese aree a pericolosità geomorfologica elevata. Possono essere eseguite, su tutte queste zone, perlopiù, solo opere di riduzione della vulnerabilità dei manufatti anche perché il loro dimensionamento, che ne determina il costo, richiede la conoscenza di ancora più parametri (Pendenza, numero e profondità degli strati, forza o peso per unità di volume, pressione della coesione efficace, angolo di attrito efficace, profondità della falda, sovrappressioni dell’acqua, condizioni del soprasuolo, azione sismica). Ognuna di queste grandezze è affetta da un margine di indeterminatezza ancora maggiore cosicché l’incertezza massima riguarda proprio la loro efficacia, specie nel tempo, che richiede controlli e monitoraggi, prima, durante e dopo la realizzazione delle opere. La stima dei costi, ad ogni modo, pur con queste incertezze, è stata realizzata per poter impostare al meglio il Piano degli interventi. È stata realizzata, ad esempio, nelle schede sugli interventi previsti, all’interno dei Piani di bacino. Il valore economico del costo complessivo, in tal senso, per la Liguria, è di 1.500.000.000 € (si veda, ad esempio, Grillo D, 2014). Si tratta, evidentemente, di una cifra molto grande e forse non esaustiva, rispetto ai costi delle opere “non strutturali” (allontanamento dai pericoli attraverso norme vincolistiche e progressiva rinaturalizzazione di aree franose o di pertinenza fluviale o marina). Tale cifra, tuttavia, pur grande, è comunque inferiore al valore economico dei danni che si constatano per dissesto idrogeologico su lassi di tempo anche di pochi anni. La somma che è stata stimata, ad esempio, per i problemi verificatisi in Liguria da fine Settembre 2013 a fine Gennaio 2014 è pari a circa 350.000.000 € (vedi, ad es., Zunino, 2014). I danni dell’alluvione del 2011 totalizzano una somma compresa fra 150.000.000 € e 800.000.000 €, l’alluvione dell’anno prima costò fra i 200.000.000 € e i 300.000.000 € mentre nel periodo fra il 2000 e il 2010 la cifra è stata quantificata in circa 2.900.000.000 € (vedi, ad esempio, Costante, 2010). I fondi per la Difesa del suolo, a fronte di tutto ciò, dal 2008 ad oggi sono stati quasi del tutto azzerati, con una lieve ripresa nell’ultimo anno, e quelli di Protezione civile, per le emergenze vengono erogati con sempre maggiori difficoltà, essendo legati a situazioni contingenti. Queste scelte di fondo stanno determinando circoli viziosi e aberrazioni. Ciò che si avverte spesso, ad esempio, è la commistione dei fondi destinati alla prevenzione con quelli per le emergenze o con quelli destinati alle strade o all’agricoltura o al taglio di alberi, importante fattore di riduzione dell’acqua nel terreno e di stabilità dei versanti. La Difesa del suolo si riduce spesso poi alla “pulizia degli alvei” ma non dalla plastica e dalla spazzatura bensì dalla vegetazione (anche ripariale) e dai detriti … fluviali. Adeguamenti di argini o addirittura opere di consolidamento di versante sono spesso subordinati a nuovi interventi edilizi di altro tipo (strade o case, come a Cavi di Lavagna dove si pensa di sistemare una frana attraverso la costruzione di un edificio a tre piani, vedi, ad es., M. T., 2014). La stabilizzazione di cave dismesse è condizionata alla realizzazione di nuove edificazioni (come si prevede per la cava delle Arene candide a Finale ligure) o, addirittura, alla realizzazione di discariche di grandi opere negative per l’assetto idrogeologico (vedi, ad es., il caso della ex cava di Vecchie Fornaci del Monte Gazzo a Genova Sestri).

 

Cose da fare

Si esula qui dalle questioni legate al cambiamento climatico in corso. Alcuni studiosi, a tale proposito, hanno già evidenziato un aumento recente delle precipitazioni intense attraverso varie constatazioni fra le quali un minor numero di giorni piovosi a parità di precipitazione annua (vedi, ad es., Faccini et al., 2011). Qui si conclude, banalmente, che il territorio frana se piove tanto. Lo dimostra, una volta di più, la relazione fra le altezze di pioggia per unità di superficie e la distribuzione delle frane. Possiamo perfino utilizzare tale relazione per grossolane predizioni come, ad esempio, aspettarci più di 150 frane all’anno, in Provincia di Genova, se piovono più di 1500 mm/m2 all’anno nei settori costieri, con qualche variabilità legata alla quantità di precipitazione dell’anno precedente e, ovviamente, alla distribuzione delle piogge su base giornaliera, oraria ecc. Il livello dell’acqua nel sottosuolo, ad esempio, è talmente importante che possono occorrere due anni relativamente asciutti per ottenere un decremento significativo dei dissesti. Tali considerazioni potrebbero permetterci di predisporre i fondi per far fronte alle emergenze nel breve periodo, che ci attendiamo non finiscano prima del 2016, e su base almeno decennale, utilizzando la frequenza delle precipitazioni annue del passato.

Il fatto che il territorio frani perché piove tanto non giustifica, però, rimanere inermi o realizzare opere affrettate o sbagliate. L’analisi  del piccolo campione di fenomeni di dissesto relativi all’ultima stagione, confrontata con l’andamento dell’ultimo quindicennio sembra confermare che i danni occorsi sono legati, oltre che alle piogge, anche alla presenza di manufatti. I versanti, in particolare, sono interessati da lunghe articolazioni viarie che interrompono la continuità delle coltri detritiche e degli strati superficiali alterati e fratturati della roccia, esponendone i livelli allo scivolamento. La porzione di valle, inoltre, è quasi esclusivamente costituita da terreno di riporto facilmente soggetto a cedimenti. I fondovalle sono messi in crisi, al contempo, dall’eccessiva vicinanza dei manufatti ai corsi d’acqua e dalla loro occupazione delle piane alluvionali. Le opere di arginatura presenti e quelle in alveo (i ponti, ad es.) sono spesso di sezione insufficiente a contenere le piene e il loro contenuto di rifiuti e vegetazione sradicata. L’abbandono, a tale proposito, non sembra generare frane e così neanche lo spopolamento. Non si osserva un maggior effetto sia pur grossolano dovuto o correlato alla presenza di boschi o fasce o campagne abbandonate o spopolate, che non siano interessate da manufatti. Sembra più vero il contrario. Non è dimostrata, in particolare, la relazione spesso chiamata in causa, proprio con lo spopolamento. La maggior parte delle frane, infatti, si sono verificate nel primo entroterra dove è in atto una tenuta se non un ritorno demografico. Per ciò che riguarda l’abbandono, poi, è ancora da verificare se la mancata cura dei boschi abbia effettivamente predisposto un numero maggiore di frane. Con tale termine, piuttosto, spesso si etichetta in senso negativo la “normale” evoluzione di qualsiasi copertura vegetale. L’abbandono, in tal senso, sembra causa, al più, secondaria o indiretta. Uno studio maggiormente approfondito dovrebbe comportare l’isolamento di porzioni di territorio non interessate da strade o altri manufatti ed incroci geografici con le frane, a loro volta non interessate da strade o altri manufatti. È molto probabile, da quanto esposto e dato il livello di antropizzazione delle nostre montagne, che non si troverebbero distribuzioni percentualmente significative di territori abbandonati e privi di manufatti contenenti un elevato numero di dissesti rilevanti. Il fenomeno dell’impermeabilizzazione del suolo, invece, complica il quadro direttamente attraverso i maggiori apporti idrici superficiali convogliati verso valle e indirettamente attraverso la rottura dei complessi equilibri idrogeologici sotterranei. Le frane costiere, come quella di Nervi, sono predisposte dall’erosione marina al piede di coste rocciose e innescate da una mareggiata intensa e tutta la costa alta e rocciosa che va da Genova Boccadasse fino a Bogliasco è esposta a tale fenomeno ma l’evento, insieme alle numerose mareggiate che si verificano ogni anno, pone anche in questo caso all’ordine del giorno il problema degli ingenti danni a carico dei manufatti incautamente costruiti sulle scogliere e, per estensione, sulle spiagge. I danni, a loro volta,  possono tradursi in costi per la collettività, dato che le aree interessano il demanio marittimo dello stato, al quale può essere ingiunto di provvedere con ulteriori opere di “difesa” dei manufatti (spesso dannose per le falesie e i manufatti adiacenti non protetti, a causa del potere riflettente delle loro superfici rispetto al moto ondoso).

Tutto ciò implica l’importanza di attuare quanto già disciplinato normativamente, attraverso la Pianificazione di bacino, completare le carenze e correggere gli errori, a tutti i livelli. Le norme possono, certamente, essere rese più semplici e meno cospicue o ambigue, possono contenere meno deroghe (spesso subordinate a farraginosi pareri), meno commissioni, comitati tecnici ecc. Si suggerisce e si rammenta, però, che la sequenza di ciò che lo Stato, in tutte le sue articolazioni, ha già stabilito si debba “fare”, per contrastare i fenomeni di cui stiamo discutendo, abbia ormai un impianto di leggi sicuramente valido e consolidato da più di un decennio di gestione e applicazione (dalla legge quadro di difesa del suolo n. 183/89 alla L. 267/98, assorbite dal D.lgs. N. 152/2006, alle leggi regionali, ai Piani di bacino per l’assetto del territorio e per il rischio). Si tratta di interventi non strutturali (cioè norme vincolistiche, a costo zero), interventi strutturali (opere) di difesa del suolo e attività di protezione civile. Si sottolinea, a tale proposito che le prime non costano nulla e che le seconde costano meno dei danni da alluvione. Tale sequenza nasce dal fatto che per ridurre il rischio R (Prodotto di Pericolo P per Vulnerabilità V) si può agire riducendo gli elementi a rischio nelle zone pericolo. Questo si può ottenere attraverso una normativa che allontani i manufatti e gli edifici (quindi le persone) dal pericolo, attraverso interventi di demolizione senza ricostruzione e l’apposizione di fasce di rispetto (lungo la costa, i corsi d’acqua e nelle aree in frana). Sarebbe più conveniente perché non comporterebbe, tra l’altro, continue spese di manutenzione e i rischi connessi. Lo stesso ragionamento vale, ovviamente, per le frane come per le inondazioni come per tutti i casi di erosione della costa e di danni da mareggiata. È probabilmente molto meno costoso per tutti che realizzare imponenti opere di difesa e consolidamento, deleterie, tra l’altro per il paesaggio. Occorre sempre chiedersi chi paga e quanto sia necessario. La disciplina, in particolare, può essere resa meno permissiva. I divieti di edificabilità, ad esempio, devono riguardare non solo le frane attive ma anche le quiescenti (che sono più pericolose proprio perché la loro dormienza genera una falsa sicurezza), tutte le aree ad alta suscettività al dissesto (parametro che misura la pericolosità geomorfologica), le aree di possibili espansione, arretramento ed evoluzione dei dissesti, le aree inondabili e allagabili e una distanza dal corso d’acqua, proporzionale alla sua portata e non inferiore ai 10 m di cui al D. Lgs. N. 152/2006. Occorre introdurre fasce di rispetto che tengano conto dei margini di incertezza dei perimetri individuati per le aree pericolose. Servono poi modifiche profonde alle leggi urbanistiche ed edilizie che invertano la attuale tendenza all’espansione e agli incrementi volumetrici e di superficie ma incoraggino le pianificazioni a crescita zero e favoriscano gli interventi di recupero (anche urbanistico) senza aumenti di volume o di superficie. Occorre, ovviamente, superare il Piano casa, almeno così come è inteso oggi, e limitarlo al riutilizzo delle case esistenti senza aumenti ulteriori di cubatura.

Un secondo obiettivo perseguibile è quello di ridurre l’impermeabilizzazione del suolo. Appare scontato, infatti, che la realizzazione, specie nell’ultima ottantina di anni, di una copertura impermeabile continua, in aree sempre più estese del territorio, abbia determinato effetti di impermeabilizzazione che concorrono a causare locali od estese problematiche di stabilità dei versanti o delle opere di sostegno e, più a valle, criticità significative nella regimazione delle acque o peggio allagamenti e inondazioni. Un’altra cosa da limitare, a tale proposito, è la proliferazione di  box e altre opere interrate, veri compartimenti stagni, nei materassi detritici alluvionali (il terreno sottostante le aree pianeggianti adiacenti ai corsi d’acqua). Altra cosa da evitare è l’inserimento di impianti a rete all’interno delle frane. In tali casi si inducono, infatti, importanti alterazioni nella resistenza del terreno e nella circolazione idrica. Spesso si legge o si sente dire, a tale proposito, che sia l’abusivismo a generare dissesto idrogeologico. È certamente vero, a tale proposito, che un’attività edilizia incontrollata è di minor qualità e quindi più esposta al danneggiamento proprio e del suo intorno o che gli abusi edilizi tendono ad essere regolarizzati nel tempo invece che puniti ma, dai tanti casi occorsi in queste ultime stagioni, si può trarre anche la conclusione che frane e alluvioni possono riguardare tutte le opere, a prescindere dal titolo edilizio (lo dimostrano, ad esempio, il manufatto abusivo fuori dalla frana e il terrazzo autorizzato dentro la frana di Andora o, ancor più, la casa del ‘700 di Genova Nervi). La realtà vera è che gli edifici autorizzati possono generare alluvioni e dissesti né più e né meno di quelli abusivi, attraverso il processo di impermeabilizzazione. L’edilizia, peraltro, si dice sia il volano dell’economia e dello sviluppo economico. Si tende, però a pensare solo all’edilizia delle nuove costruzioni piuttosto che quella delle manutenzioni (ordinaria e straordinaria), delle ristrutturazioni o della stessa difesa del suolo. La prima, invece, forse immobilizza i patrimoni più che muoverli perché gli sproporzionati costi delle nuove costruzioni richiedono grandi accumuli precedenti all’acquisto.

Le opere strutturali di difesa del suolo previste dai Piani di bacino devono essere realizzate con più decisione. Si sottolinea che occorre rimpinguare, a livello statale, a tale proposito, il fondo di difesa del suolo, almeno ai livelli del bilancio 2008. I Comuni, ogni anno, nell’ambito dell’elenco annuale e, ogni tre anni, nel programma triennale dei lavori pubblici, dovrebbero predisporre i progetti per ogni intervento di opera strutturale, di manutenzione dei versanti non insediati, delle opere idrauliche e dei corsi d’acqua di propria competenza, volti al ripristino e al mantenimento delle funzionalità ecologica, idraulica e di stabilità dei versanti, salvaguardando il compito che svolge la vegetazione rispetto alla protezione dei versanti e delle sponde. Occorre ricordare, per tale aspetto, che le priorità sono dettate dalle mappe di rischio dei Piani di bacino e dagli eventi di piena e di frana recenti. Ciascun proprietario o concessionario di terreno, inoltre, esegue i lavori a proprio carico eccetto i casi in cui sia approvato un finanziamento pubblico di livello sovra – comunale. Le opere strutturali di difesa del suolo, insieme a quelle di manutenzione ordinaria e straordinaria, sia del costruito sia degli spazi in edificati, possono così diventare occasione occupazionale per milioni di persone in tutto il paese, sicuramente molto di più e molto meglio di opere gigantesche, quando non impattanti o inutili, sempre che si rispettino i delicati equilibri dello stato attuale del territorio che è costituito da un intreccio di tessuto urbano compatto, corsi d’acqua, territorio in pendenza, insediamenti sparsi in pericolosa espansione (sprawl) e territorio naturale o rinaturalizzato. Serve destinare, inoltre, risorse adeguate ad interventi di manutenzione ordinaria delle opere in alveo, delle sponde e dei versanti di propria competenza, attraverso i programmi annuali e triennali dei lavori pubblici, non meno del dieci per cento degli stanziamenti annualmente destinati alle opere strutturali pianificate attraverso il Piano di bacino. I fondi per le emergenze di Protezione civile possono essere stimati non a breve termine ma con un intervallo temporale più ampio utilizzando la relazione tra frane e precipitazioni e i tempi di ritorno delle precipitazioni annue.

La dismissione di aree produttive come fabbricati industriali o artigianali o di cantieristica navale prospicienti i corsi d’acqua, le loro foci e le spiagge possono essere occasione di rinaturalizzazione e non di cambio uso a fini speculativi, come si prospetta alla foce del Pora a Finale ligure. Si propone, poi, di realizzare ovunque, un vero sistema di drenaggio urbano e peri – urbano. Si tratta di costruire sistemi di recupero delle acque piovane, di raccolta, rallentamento e depurazione delle acque bianche, simili ma separati rispetto a quelli fognari e di completare ovunque la canalizzazione di monte delle strade, mediante cunette “alla francese”. Occorre poi raccordare le diverse opere di regimazione delle acque introducendo opportuni accorgimenti di rallentamento del deflusso superficiale e sotterraneo attraverso dispositivi che, a partire dai tetti delle case, recuperino le acque piovane a uso domestico e che, per tutte le altre opere, sfruttino le capacità di ritenzione, suzione e depurazione della vegetazione, del terreno e della roccia stessa, attraverso preliminari stime di permeabilità, evapotraspirazione e portata. Si tratta, cioè, di realizzare una vera rete delle acque bianche che non aggravi i problemi idraulici di smaltimento delle piene dei corsi d’acqua. Le canalizzazioni e i pozzetti esistenti, che indirizzano le acque verso i torrenti devono consentire la riduzione delle velocità di deflusso del tratto a valle, ad esempio, tramite vasche e serbatoi integrati con opere a verde, al fine di non aggravare i deflussi di piena dei torrenti nelle sezioni critiche a valle, durante eventi di intensa precipitazione. Possono essere adeguate, contemporaneamente alle opere di “coordinamento” e rallentamento del deflusso delle acque bianche, tutte le tombinature, anche in assenza di reticolo idrografico catastalmente significativo, in quanto gli allagamenti e le inondazioni non dipendono dalla proprietà dei terreni e, sempre più spesso, interessano anche piccoli bacini. Occorre che gli sbocchi delle opere di regimazione, in particolare, non creino problemi di erosione alle aree in cui vengono recapitati. Serve realizzare poi opere a verde, che determinano un primo rallentamento del processo di ruscellamento e la successiva infiltrazione delle acque nel terreno. Di seguito occorre collegare la rete di regimazione delle acque a quella delle acque bianche, avendo anche qui cura di realizzare ulteriori sistemi di rallentamento (pozzetti, anche a dispersione, con scarichi di fondo e di troppo pieno).

Il taglio, strettamente controllato, della vegetazione negli alvei dovrebbe consentirne la permanenza sopra una soglia superiore al 70% per i suoi benefici effetti sull’auto – depurazione dei corpi idrici, sulle catene alimentari e contro l’erosione. Le piante instabili, quelle non flessibili e quelle non arbustive, che si trovano in aree inondabili dalla corrente di piena cinquantennale possono essere rimosse. Il riconoscimento deve avvenire attraverso un progetto di manutenzione che regoli l’intervento in modo rigoroso. L’inondabilità, ad esempio, ricavata dai Piani di bacino, dovrebbe essere mappata, l’alveo attivo riconosciuto e certificato nel progetto. Le condizioni dell’apparato radicale, la flessibilità della pianta e l’entità del diradamento verrebbero stabilite e certificate. Le piante raggiungibili dall’acqua solo per tracimazione laterale, invece, sarebbero mantenute così come la vegetazione ripariale e i depositi alluvionali adiacenti. La vegetazione presente al di fuori dell’alveo attivo, in particolare, può essere leggermente diradata in funzione dell’apparato radicale e della flessibilità del fusto mantenendo le associazioni (vegetali) in condizioni giovanili e favorendo le formazioni arbustive a macchia irregolare. Un problema di fondamentale importanza è quello dello smaltimento di quanto viene tagliato o raccolto durante tali attività di manutenzione degli alvei, delle sponde e dei versanti. Come è ormai noto, i cosiddetti rifiuti possono essere quasi azzerati. Ciò è vero a maggior ragione per quanto viene raccolto durante le opere di manutenzione. Il materiale legnoso, ad esempio, sia quello degli alvei sia quello raccolto sulle spiagge, può essere de – pezzato e utilizzato in loco per realizzare almeno un’opera di ingegneria naturalistica per ogni intervento di manutenzione, in sostituzione di un’opera di sistemazione fluviale esistente rigida. Le ramaglie possono essere re – impiegate per opere di recupero ambientale. Il rimanente non deve essere lasciato a rifiuto in alveo ma può essere allontanato, triturato e consegnato a chiunque ne faccia richiesta o inviato al più vicino giardino o orto urbano o azienda agricola disponibile. L’eccedenza, se in buone condizioni di umidità, può essere sistemata, senza concentrazioni, sul suolo del più vicino pendio boscato di pendenza inferiore a 100%. L’ulteriore eccedenza può essere inviata alla falegnameria o segheria più vicina disponibile. L’ulteriore eccedenza può essere inviata al più vicino centro di compostaggio. Tali centri, ovviamente, possono essere implementati all’interno della Regione, per ridurre i costi di trasporto. I materiali restanti, più o meno ingombranti, del corso d’acqua, costituiti da rifiuti solidi di vario tipo, non bio – degradabili, devono essere separati, allontanati e inviati alla raccolta differenziata.

Altra tematica da non sottovalutare riguarda la “pulizia” dai detriti che, in condizioni normali, fanno parte integrante dei fiumi e dei torrenti. Questi ultimi, allo stato attuale, si trovano particolarmente costretti dalla massiccia edificazione circostante. È ovvio che la situazione rimarrà tale per molto tempo e che, ciò nonostante, si deve proseguire, in tal senso, l’opera iniziata con l’abbattimento del palazzo di Via Giotto 15 di Genova Sestri, che si trovava proprio sopra l’alveo del torrente Chiaravagna. Fino al raggiungimento di una situazione ideale, tuttavia, continuerà a porsi il problema del prelievo di materiale detritico dal corso d’acqua. Le analisi, in tal caso, potranno essere eseguite e controllate in corso d’opera, per i tratti “sovra – alluvionati”, sia per la risistemazione del materiale detritico all’interno dello stesso corso d’acqua sia per il ripascimento delle spiagge. Il materiale litoide di ostacolo può essere rimosso e sistemato, infatti, nello stesso alveo, in aree ove la sezione idraulica lo consente o alla foce, tranne che per casi eccezionali, valutati con attenzione nel progetto, previa analisi granulometrica e chimica, onde escludere pezzature incongrue o inquinanti, ai fini di ripascimento dei litorali. La “pulizia” dai detriti, in particolare, deve essere, però, trattata con molta attenzione e sotto l’occhio attento dei tecnici specializzati redattori del progetto, tenendo conto del fatto che i depositi alluvionali offrono una bassa resistenza all’onda di piena e che, asportandoli a valle, aumenta l’erosione a monte, innescando un circolo vizioso e alterando il profilo di equilibrio del corso d’acqua. A tale scopo può essere eseguita una specifica valutazione nel progetto. Occorre eseguire, poi, gli scavi alternativamente sulle due sponde per consentire la vita biologica del corso d’acqua. Dovrebbero essere modificate le prescrizioni delle autorizzazioni idrauliche per tutti questi aspetti.

Passando a parlare dei versanti, i muri a secco possono essere ripristinati, sempre a secco, a cura dei proprietari o concessionari o affittuari dei fondi. La normativa forestale regionale (L . R. n. 4/99 e s. m. i.) consente di eseguire questa manutenzione senza alcun tipo di autorizzazione. I muri a secco cedevoli non devono essere sostituiti con muraglioni di cemento per non creare ulteriori ostacoli al deflusso sotterraneo delle acque o aumento di velocità del deflusso superficiale. È possibile, in particolare, ripristinare i muri a secco con la stessa tecnica e costruire i nuovi muri allo stesso modo date le loro positive caratteristiche di deformabilità e drenaggio delle acque. Le attività inerenti i cosiddetti “Presidi idrogeologici” vanno migliorate e potenziate. Si tratta di cose diverse dal Presidio di cui si è parlato sopra (a proposito di quello usato strumentalmente per costruire villette). Si tratta, in questo caso, di strumenti di presenza sul territorio di tecnici qualificati per il monitoraggio delle situazioni di pericolo. La Regione Piemonte li ha istituiti nel 2007, la Calabria nel 2009, la Sicilia nel 2010, la Provincia di Carbonia e Iglesias e la Campania nel 2013. La Regione Piemonte, ad esempio, li ha istituiti (in attuazione del D. P. C. M. del 27/02/2004) per la gestione di piene e deflussi, per garantire servizi preventivi ed operativi di rilevamento, censimento e monitoraggio idraulico, per verificare l’esistenza di dissesti, per l’osservazione sistematica e programmata di parametri fisici, per il controllo idraulico e l’evoluzione dei processi in atto, per attività di sopralluogo e protezione civile, realizzandoli soprattutto attraverso enti pubblici e risorse esistenti. In Liguria si attuano, di fatto, già dall’alluvione del 2002 attraverso unità di crisi che si realizzano durante i periodi di allerta meteo e che consistono soprattutto nella disponibilità di personale qualificato (geologi e ingegneri idraulici pubblici dipendenti col supporto volontario di professionisti degli ordini professionali) a svolgere attività di presidio, sopralluogo e rendicontazione di quanto accade in termini di allagamenti, frane, inondazioni e danni conseguenti.

Un capitolo a parte occorrerebbe scrivere per i problemi legati alle discariche di rifiuti solidi urbani e ai problemi che possono creare sia per gli sversamenti di liquami ad alto contenuto inquinante sia per i problemi di stabilità a breve e a lungo termine. Lo scriverà, forse, per il caso di Genova Scarpino, una “task force” di tecnici che dovrà dare ulteriori indicazioni rispetto a cause e rimedi degli ultimi sversamenti. Altri volumi saranno scritti per individuare responsabilità civilmente o penalmente rilevanti. Si vuole qui solo aggiungere la proposta di “alleggerire” la massa e il volume dei rifiuti da portare in discarica attraverso la separazione, “a monte”, di tutto quanto sia riutilizzabile (e oggi esistono tecnologie, in possesso anche degli enti gestori, per recuperare quasi tutti i materiali, previa la separazione della raccolta direttamente presso l’utente). Risolutiva, appare, a tale proposito, la realizzazione di impianti di compostaggio anche presso le stesse discariche, visto che la frazione organica costituisce circa il 30% della massa totale dei rifiuti e che la Liguria importa, per il proprio fabbisogno in agricoltura, quantitativi di concimi chimici da fuori regione doppi rispetto al compost realizzabile. La raccolta controllata della frazione organica, ovviamente, può ridurre drasticamente i livelli di percolato inquinante nel corpo delle discariche.

Alla guida dei gruppi di progettazione, realizzazione degli interventi e delle filiere decisionali istituzionali e politiche che riguardano la difesa del suolo e i pericoli naturali dovrebbero esserci professionalità orientate, per formazione, a vedere le cose dalla parte del territorio e dell’ambiente (geologi, naturalisti) in grado di vedere ciò che i calcoli dei modelli matematici non riescono a prevedere con precisione. Nella progettazione, in particolare, si dovrebbero considerare attentamente la morfodinamica, la sedimentologia fluviale e gli ecosistemi. I progetti di adeguamento degli alvei, dei versanti e più in generale le frane, le inondazioni e pericoli naturali dovrebbero essere trattati da gruppi interdisciplinari comprendenti geologi, naturalisti, ingegneri ambientali o civili esperti di idraulica, forestali, agronomi, periti agrari, architetti paesaggisti e volontari esperti di protezione civile. A tali gruppi andrebbe affidata l’analisi dei problemi e la progettazione delle opere di difesa del suolo, sia di quelle inserite nella pianificazione di bacino (prevenzione) sia quelle di protezione civile necessarie durante e subito dopo gli eventi (emergenza). Ciascuna figura darebbe il proprio contributo secondo le proprie conoscenze ma il gruppo dovrebbe essere guidato dalle figure competenti di materie naturali (geologo e naturalista) che indicherebbero le principali modalità e lo schema generale delle opere da realizzare perché queste fossero integrate nell’ambiente. La rotazione dei gruppi interdisciplinari di progettazione dovrebbe garantire il principio di trasparenza degli appalti e la diffusione delle conoscenze. I gruppi potrebbero poi controllare sul posto insieme ai tecnici pubblici l’aderenza alla progettazione degli interventi in corso di realizzazione.

Anche le procedure autorizzative e di controllo (o “burocratiche”, come si usa sostenere ultimamente in senso spregiativo) hanno un ruolo non secondario ai fini dell’efficacia degli interventi. Ogni comune o almeno ogni unione di comuni dovrebbe avere un geologo dipendente e un naturalista nel proprio organico. I geologi delle amministrazioni pubbliche, in generale, dovrebbero avere poteri di interdizione, nelle zone pericolose, sui titoli edilizi. Andrebbe, in ogni caso, scongiurato ciò che a tutt’oggi avviene e cioè che le opere e le modalità di intervento siano decise o fortemente suggerite da titolari o maestranze di imprese. Occorrerebbe cioè che Comuni e istituzioni non si affidassero al “primo che passa” o al capomastro della valle o al guidatore di pale meccaniche (per volenteroso che sia) o, peggio, a chi ha contribuito ad acuire i problemi attraverso opere poco studiate e male eseguite ma seguissero le procedure nel modo più trasparente e senza saltare controlli. Le parti dei programmi comunali annuali e triennali dei lavori pubblici, riguardanti estrazione di materiali litoidi dal demanio fluviale e lacuale o taglio della vegetazione dei corsi d’acqua e lungo i versanti dovrebbero essere sottoposte a scrupolose valutazioni ambientali presso le Regioni.

 

Cose da evitare

Si dovrebbe invertire la rotta attuale che vede norme sempre più de – regolatrici sulle aree giudicate pericolose. Sono state recentemente liberalizzate, ad esempio, a determinate condizioni, le frane quiescenti, le fasce di inondabilità duecentennale, con bassi tiranti e velocità di scorrimento, e certe zone di in edificabilità assoluta presso le sponde dei corsi d’acqua. Si è alterato, inoltre, il rapporto di sovra – ordinazione fra i Piani di bacino e i Piani urbanistici. Si potrebbe evitare, inoltre, di contrastare le frane attraverso lo sviluppo delle seconde case, come recentemente è stato progettato a Cavi di Lavagna. Sarebbe utile, piuttosto, impedire i trasferimenti di indice edificatorio (il rapporto tra volume edificabile e superficie disponibile). Quelli da terreni non adiacenti, ad esempio, vanificano la vocazione di un territorio a ospitare piccoli edifici piuttosto che condomini. Quelli provenienti da aree inedificabili per frana, come sopra accennato, finiscono per innescare una pericolosa e premiante compravendita di terreni franosi che possono aumentare di valore economico e determinare in futuro aumento di importo dei danni. Il suggerimento è, invece, che questi siano acquisiti dallo stato e destinati, perlopiù, a verde pubblico. I premi di indice per il cosiddetto “presidio” (incremento di cubatura per nuove costruzioni in collina che nascono col pretesto di contrastare l’abbandono e favorire opere di riassetto idrogeologico) parimenti non risolvono il problema anzi si risolvono nella realizzazione di piccole e grandi ville corredate da un insieme sproporzionato di rampe di accesso e muri di cemento, tutt’al più rivestiti in pietra (a ulteriore discapito delle martoriate aree interessate da cave), spesso preceduti dal taglio della vegetazione. La loro realizzazione incrementa l’impermeabilizzazione e quindi l’erosione anziché contrastarla. Occorrerebbe, poi, frenare, a livello comunale, il ricorso alla monetizzazione degli oneri di urbanizzazione e introdurre un limite al rapporto tra case disabitate e case abitate per non incentivare l’ulteriore consumo di suolo.

I fondi per la Difesa del suolo non dovrebbero essere mischiati con quelli per le emergenze, competenti ai capitoli della Protezione civile in quanto si dovrebbe poter agire contemporaneamente sia sulle emergenze (nel caso di) sia sulla prevenzione. I fondi della Difesa del suolo dovrebbero essere distinti, per lo stesso motivo, da quelli destinati ad altre opere pubbliche, come le strade, o ad altri settori, pur importanti, come l’agricoltura, altrimenti si sistemano i manufatti ma non si agisce sulle cause di una frana o peggio si finanzia il taglio di alberi, importante fattore di riduzione dell’acqua e di stabilizzazione del terreno. La cosiddetta pulizia del bosco, tra l’altro, cioè il taglio della vegetazione, produce ingenti quantità di scarti vegetali che aggravano il problema della raccolta dei rifiuti e finiscono per essere bruciati alimentando processi di inquinamento dell’area e depauperando di sostanze il terreno. Né bisognerebbe ridurre la Difesa del suolo alla “pulizia degli alvei”, spesso dannosa perché non sufficientemente studiata. Gli interventi di adeguamento degli argini, parimenti, non dovrebbero essere connessi a interventi edilizi di altro tipo come strade o case, col pretesto della difesa del suolo perché contrastano con questa. Le cave in disuso o da dismettere, in cui non sia già attivo un processo di graduale rinverdimento, possono essere stabilizzate attraverso gradonature e sistemi che ne consentano la rinaturalizzazione senza che ciò sia subordinato alla realizzazione di nuove edificazioni (come si prevede per la cava delle Arene candide a Finale ligure) o, peggio, all’inserimento di discariche (caso della ex cava di Vecchie Fornaci del Monte Gazzo a Genova Sestri), potenziali potenti coltri detritiche destinate, prima o poi, a scivolare a valle.

Un ulteriore accorgimento potrebbe essere quello di evitare la costruzione di opere di difesa molto costose o inutili o, peggio ancora, dannose. È il caso, ad esempio, dei manufatti di difesa della costa ad alto potere riflettente. Sembra illogico, in particolare, per le coste alte come per quelle basse, debbano essere spese centinaia di migliaia di euro per consolidare o difendere zone che evidentemente costituiscono, oggi, il fronte più avanzato dell’erosione marina regressiva (inarrestabile in tempi non geologici). La costa dovrebbe essere (specie a fronte delle conoscenze odierne) esclusa dall’edificazione per una congrua fascia verso l’interno. Ulteriore bizzarria sarebbe che a pagare dovesse essere il demanio marittimo per non aver già protetto completamente spiagge e falesie con sproporzionate e dannose opere di protezione (scogliere, speroni di cemento, dighe e pennelli) che avrebbero permanentemente alterato i delicati equilibri esistenti fra terra e mare.

Occorrerebbe, infine, evitare di costruire edifici dove il terreno è franato anche se per poche decine di metri e senza vincolo specifico del Piano di bacino. L’assenza di un vincolo specifico da Piano di bacino, nelle frane piccole, serve, infatti, a poter ripristinare eventualmente l’opera di sostegno, non a incoraggiare nuove costruzioni. In questo caso uno degli svantaggi è quello di generare una convenienza alla frana mentre, al contrario, causare una frana è giuridicamente un reato (Codice penale, art. 426, inondazione, frana o valanga: Chiunque cagiona un’inondazione o una frana, ovvero la caduta di una valanga, è punito con la reclusione da 5 a 12 anni). Non ricostruire un edificio, in una zona franosa, invece, determinerebbe la riduzione del valore immobiliare di un’area pericolosa e, di conseguenza, l’importo di eventuali futuri danni. Sono già previste, tra l’altro, in molti casi, forme di indennizzo adeguati per i proprietari. I risultati sarebbero durevoli e si potrebbero risparmiare i costi ingenti di una (spesso illusoria) messa in sicurezza. Ridurre il rischio, in conclusione, significa ridurre i danni, non solo quelli ecologici ma anche quelli economici.

 

AUTORI CITATI:

 

Costante A., 2010. Soldi per l’alluvione. Ora la Liguria fa pressing su Letta. Il secolo XIX, 30 dicembre 2010, 11.

Faccini F., Piccazzo M., Robbiano A. e Tedeschi F., 2011. Precipitazioni intense, pericolosità geomorfologica e pianificazione territoriale, Geologia dell’ambiente, 2, 44 – 50.

Grillo D., 2014. Alluvione, la palude dei progetti. Il secolo XIX, 8 gennaio 2014, 13.

  1. T., 2014. I lavori al muraglione crollato per una frana. Corriere mercantile, 16/02/2014, 9.

Timossi G., 2014. Andora, tutto pronto per la rimozione del treno. Il secolo XIX, http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2014/02/03/AQlIG0gB-andora_rimozione_pronto.shtml,  visitata il 12/02/2014.

Weber A., 1910. Die Gefahr der Büreaukratisierung, in “Weber, Alfred”, Treccani.it, http://www.treccani.it/enciclopedia/alfred-weber/, visitata l’11/03/2014.

Zunino A., 2014. Frane e alluvioni, conto da 350.000.000 €. La repubblica, 25 gennaio 2014, 11.

(Visited 25 times, 1 visits today)
redazione

redazione

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.