Sul mare luccica …

Sul mare luccica …

di Alessandra Fava

Solo il 14 per cento della plastica prodotta viene riciclata. Immaginate  che il resto vada per terra e per mare, in parte nelle discariche, inceneritori o raccolta, certo. Ma anche nei mari appunto. La Ellen MacArthur Foundation prevede che nel 2050 ci sarà nelle acque marine del pianeta più plastica che pesci, visto che secondo alcuni calcoli oggi vagano nelle acque salate 5 miliardi di tonnellate di materiale e ogni anno se ne aggiungono 8 milioni di tonnellate.

E non pensiamo che il Mediterraneo si salvi. Anzi. Secondo il naturalista Marco Faimali, responsabile di Istituto di Scienze Marine del CNR con sede a Genova, se noi potessimo filtrare un chilometro cubo di acqua otterremmo dai 2 ai 10 chili di plastica, ma in altri mari se ne possono ricavare addirittura 100 chili. Il CNR è coinvolto in un progetto europeo con altri 15 partner sull’impatto delle microplastiche sugli organismi marini, “EPHEMARE – Ecotoxicological effects of microplastics in marine ecosystems”, uno dei quattro progetti finanziati dalla Comunità Europea con l’azione pilota JPI Oceans dedicata agli effetti ecologici delle microplastiche nell’ambiente marino.

Secondo i calcoli di questo team  di 30 esperti, ogni anno si producono circa 300 milioni di tonnellate, dei quali più del 10 per cento finiscono negli oceani. I pezzi di plastica, a causa di processi degradativi, si frammentano in micro-particelle di dimensioni variabili tra gli 0,3 e 5 millimetri. “Stiamo studiando queste microplastiche inferiori ai 5 millimetri, perciò definite microplastiche  – spiega Faimali – E’ una forma di inquinamento emergente e stiamo cercando di capire che impatto possano avere sulla catena trofica marina e capire anche se potranno dare dei problemi anche agli umani”. Insomma, al momento gli studiosi non sono ancora in grado di calcolare il meccanismo di tossicità, ma è chiaro a tutti che le plastiche possono diventare nanoplastiche e quindi interessare anche i tessuti degli animali marini mangiati da noi umani.

L’allarme delle microfibre che si distaccano da tessuti ed oggetti di abbigliamento di poliestere e che poi finiscono nelle nostre lavatrici è già stato lanciato da un certo tempo (https://www.youtube.com/watch?v=BqkekY5t7KY).

La scienza certo progredisce e individua qualche via d’uscita. Ad esempio ha fatto molto parlare la scoperta fatta da una ricercatrice italiana, Federica Bertocchini, affiliata al CNR spagnolo che ha trovato un enzima prodotto da un batterio che vive nell’intestino di una camola, in grado di degradare la plastica.  Non è però ancora chiaro che cosa rimanga dopo il degrado e se quindi dopo la “lavorazione” naturale non si ottenga un materiale ancora più dannoso.

Intanto c’è una campagna di Greenpeace per chiedere al governo italiano e alla Unione Europea norme più stringenti sull’utilizzo della plastica in generale.

(http://www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/no-plastica/?pm=true&gclid=CMm-s6-FrtQCFU0Q0wodUnoPeQ)

 

 

Foto: nonsprecare.it

         viagginews.com

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redazione

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