Belluno, se la terra si ammala

di Massimo Salvi

Calliol. Una frazione di Cesiomaggiore in provincia di Belluno. Una località ormai nota per le numerose coltivazioni rigorosamente “biologiche”.
Lo spettacolo invernale su questo lato della Valbelluna è entusiasmante: il bianco immacolato dei prati si fonde con l’azzurro del cielo, creando giochi di luci che si perdono tra le lunghe ombre proiettate dagli alberi. Sullo sfondo, imbiancate dalla neve, svettano le Vette Feltrine, con il San Mauro e l’inconfondibile sagoma del Pizzocco a stagliarsi in una tersa atmosfera. Un’immagine bucolica, di altri tempi, di una natura quassù ancora incontaminata, punteggiata da piccoli nuclei abitati e case rurali, che conservano ancora le caratteristiche di una volta.

E proprio questo devono aver pensato gli agricoltori locali, che da qualche anno sono ritornati alle origini, realizzando un’autentica oasi del biologico, dove vengono coltivati quasi esclusivamente prodotti Doc, dalla patata di Cesiomaggiore al mais sponcio (una varietà che rischiava di perdersi), fino all’orzo e al pregiato fagiolo di Lamon. Il tutto rispettando un rigido disciplinare dove la chimica (fitofarmaci, antiparassitari, diserbanti, ormoni e quant’altro) è pressoché assente: solo qualche manciata di “poltiglia bordolese”, giusto per difendere le piante dagli assalti degli insetti più voraci. Una dopo l’altra, nel giro di pochi anni, in comune di Cesiomaggiore sono sorte una quindicina di aziende agricole dove i prodotti vengono coltivati con metodi rigorosamente naturali. E’ stata costituita anche una cooperativa, “La Fiorita” che ormai annovera numerosi soci, tutti coltivatori biologici, alcuni dei quali provenienti dalle zone limitrofe del Trentino e del Bassanese. Insomma, un ambiente naturale che ha subito poche trasformazioni, sostenuto anche dall’Amministrazione comunale con un disciplinare (DECO) che elimina l’uso di diserbanti e fitofarmaci per determinate produzioni, su tutte la patata.

Una situazione idilliaca, si direbbe. Ma non è così. Nella zona di Calliol si è inserito uno dei maggiori consorzi di produzione di mele: la “Melinda” (ormai pressoché una multinazionale), acquistando una ventina di ettari di campagna. Bene, un ulteriore impulso per l’economia, si potrebbe pensare. I coltivatori locali non sono però di questo avviso, presagiscono l’affermarsi di un’agricoltura intensiva che impoverisca il territorio ma, soprattutto, lo danneggi in modo irreparabile, con gravi ricadute anche per la salute umana. A destare preoccupazione è l’elevata quantità di pesticidi utilizzati per questo tipo di coltivazione, che per il melo prevede 18/20 se non addirittura 26 trattamenti all’anno, costituiti principalmente da insetticidi e fungicidi composti da un centinaio di principi attivi.
Un’autentica calamità per le coltivazioni biologiche che rischierebbero così di perdere le loro caratteristiche peculiari, e non solo. C’è anche preoccupazione per la possibile contaminazione del suolo, dell’acqua e dell’aria in una valle dove gli agenti chimici tendono a ristagnare. Un rischio quindi non solo per le coltivazioni ma, anche, per la salute proprio in un ambito già al centro dell’attenzione per l’alta incidenza di tumori e linfomi.
Intanto, sbancamenti e livellamenti del terreno hanno interessato un’area di 190 mila metri quadrati, con riporti di terreno anche superiori ai 6 metri, sconvolgendo una vasta area.
Su questi problemi è apparso un servizio pubblicato su “Il Sole-24 Ore” del Nord-Est nella prima settimana di febbraio 2009.
Informazioni ulteriori possono essere inoltre raccolte consultando il blog di “Prà Gras” su cui è stata linkata questa rivista.

Foto tratte da:
Tiscover
Pragras.blogspot.com
Grappaeprealpi

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redazione

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