No Man’s Land, Antartide come la bella Maria

No Man’s Land, Antartide come la bella Maria

di Daniela Binello

Le pretese di sovranità avanzate nei confronti dell’Antartide sono state bloccate con il Trattato di Washington del 1959. Lo sfruttamento minerario è stato bandito dal Protocollo di Madrid del 1991 che potrà essere emendato solo nel 2048. Ma, allora, chi metterà le mani sull’Antartide?

La regione artica, Antartide compresa, è uno spazio non soggetto alla sovranità degli stati, sebbene non manchino di farsi avanti i pretendenti, i quali si appellano, senza gran costrutto, a una rivisitazione della teoria dei settori. Peraltro, l’assenza di contiguità geografica con gli stati che reclamano la sovranità su questo continente ha indotto a utilizzare come riferimento il 60° parallelo sud, alla base di un triangolo che ha come vertice il Polo.

Le rivendicazioni di sovranità dei claimant states Argentina, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Norvegia e Regno Unito (la cui zona inizia al 50° parallelo sud) sono fra loro diversificate. L’area più vasta viene reclamata dall’Australia (6,1 milioni circa di kmq, su un territorio totale di 14 milioni di kmq). Vi sono poi le superfici richieste dal Cile (circa 1,3 milioni di kmq) e dall’Argentina (circa 1,2 milioni di kmq).

Il Trattato di Washington del 1959 (Antartic Treaty) ha bloccato le controversie territoriali per evitare che il continente artico diventasse motivo di conflitto fra paesi. Fra i firmatari dell’accordo (46 stati compresi i sette claimant states) vi è anche l’Italia. Gli Stati Uniti e la Russia, invece, si sono riservati il diritto d’avanzare rivendicazioni territoriali, qualora lo ritenessero opportuno. Con il Trattato, dunque, l’Antartide gode dello status di territorio internazionalizzato e usato come luogo di ricerca e cooperazione fra scienziati di ogni paese, ferma restando l’interdizione di realizzare attività militari, nonché esperimenti nucleari in superficie e sottomarini.
Successivamente al Trattato, sono state adottate anche due convenzioni sulla conservazione delle risorse marine (Londra, 1972, e Camberra, 1980) ed infine il Protocollo di Madrid sulla protezione ambientale (1991), quello che proibisce attività di sfruttamento minerario, a tutela dell’ecosistema della zona. L’Antartide, però, possiede considerevoli quantità d’idrocarburi sottomarini, immensi giacimenti di carbone e ferro, e significative risorse di nichel e uranio, che il Protocollo potrà difendere per altri trentanove anni. E’ previsto, infatti, che il Protocollo di Madrid possa essere emendato nel 2048.

Attualmente l’Antartide è abitato solo da scienziati poiché, come previsto dalle parti contraenti del Trattato di Washington, gli stati possono inviare spedizioni o istituire basi permanenti nel continente, a patto che siano notificate agli altri firmatari. L’Antartide e i mari antartici sono elementi chiave dell’osservazione del sistema climatico mondiale. Nell’atmosfera sovrastante, inoltre, è stato rilevato il danno più esteso allo strato di ozono.
L’interesse scientifico per l’Antartide, tuttavia, non è limitato al clima o allo studio dell’ecosistema. Molto spesso le missioni scientifiche sono solo un altro modo per affermare l’interesse nazionale in una regione. E’ il caso della spedizione russa inviata nel 2002 in Antartide: secondo Mosca occorreva affermare la propria presenza nel territorio, pur senza reclamarne ufficialmente delle porzioni, per non essere soverchiati dalle pretese di altri paesi sulle risorse naturali di cui è ricco quel continente.

Anche in stati dalle politiche internazionali meno aggressive di quelle russe l’interesse scientifico marcia a pari passo con quello economico: sebbene la rivendicazione avanzata dall’Australia su oltre il 43 per cento del continente antartico sia stata motivata come una premura per la conservazione di un ambiente incontaminato. L’Australian Strategic Policy Institute, infatti, sostiene la pretesa di sovranità territoriale soprattutto per proteggere le risorse naturali da un eccessivo sfruttamento con gravi danni per l’ambiente, ma è intuibile fra le righe che si voglia scongiurare che i benefici economici derivanti vadano a vantaggio di altri stati.

Allo stato dell’arte, l’unica risorsa accessibile, perchè al di fuori della giurisdizione del Protocollo di Madrid, è l’acqua dolce, che potrebbe essere ricavata dagli iceberg e dal ghiaccio per alimentare un circuito di vendita internazionale a favore di paesi in cui le risorse idriche scarseggiano. Stando alle previsioni della Fao, nel 2025 due terzi della popolazione mondiale potrebbe subire gli effetti nefasti provocati dalla mancanza d’acqua.

Lo sfruttamento minerario, come abbiamo detto, è sottoposto a divieto esclusivo fino al 2048. Se la disponibilità mondiale del combustibile fossile dovesse decrescere a un livello tale da provocare nuovamente insostenibili aumenti del prezzo unitario del petrolio, nell’ordine di centinaia di dollari al barile, potrebbe tornare in auge una certa pressione internazionale per lo sfruttamento minerario delle risorse antartiche.

Sebbene sia chiara la portata economica e strategica di tali operazioni per gli stati che riusciranno a garantirsene l’accesso, gli effetti sull’ecosistema sono di una portata che non è valutabile con precisione: non è prevedibile con esattezza, ad esempio, come l’Antartide possa sostenere la presenza di un numero più elevato di persone e mezzi per lo sfruttamento minerario o se tali attività potranno causare un riscaldamento del suolo tale da provocare nelle zone più marginali un’accelerazione dello scioglimento del ghiaccio, con il conseguente innalzamento del livello del mare.

Il costo di un danno ambientale, secondo gli esperti, è quantificabile qualora si manifesti nella sua portata complessiva. Nel caso dell’Antartide, per il ruolo chiave del continente all’interno del sistema climatico mondiale, un’alterazione ambientale potrebbe essere irreversibile e il costo di tutto questo ben maggiore dei ricavi che la speculazione economica avrebbe fruttato. Nella prospettiva di sfruttare il continente, perciò, esistono due questioni che restano irrisolte: le rivendicazioni territoriali e il peso dell’opinione pubblica ecologista internazionale.
In merito alla prima questione, gli stati firmatari del Trattato, sono soltanto 46, un numero di gran lunga inferiore alla totalità dei paesi della comunità internazionale. Non è da escludere, perciò, che altri governi non possano avanzare le proprie rivendicazioni su porzioni dell’Antartide. In tal modo, nello “spezzatino” generale dell’Antartide, qualora avvenisse, essi si garantirebbero l’accesso alle risorse. Né si può scartare l’ipotesi che i pretendenti arrivino fino allo scontro armato per aggiudicarsi un loro “diritto di prelazione”, con gravi conseguenze per la pace internazionale.

La seconda questione porta invece a una riflessione sul ruolo che l’opinione pubblica mondiale occupa nelle questioni internazionali: i movimenti e le organizzazioni della società civile, quando si impegnano, intervengono con sempre maggiore autorevolezza in problematiche transnazionali. Già verso la fine degli anni ‘80, le pressioni ambientaliste sull’Antartide impedirono a Francia e Australia di sottoscrivere la Convenzione sulla regolamentazione delle attività minerarie, un documento che lasciava trapelare la possibilità di esercitare azioni estrattive. Quella appassionante causa civile ecologista portò alla formulazione del Protocollo di Madrid. Ora, si tratta di non trascurare la deadline del 2048.

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redazione

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